E mentre non può essere un caso se Giovanni Percolla è nominato da Brancati cavaliere (occorrendogli un tipo sociale che in qualche modo ricalchi quello oleografico del nobile spagnolo – e anche meritandogli l’attributo di don che lucri il significato del calembour), è proprio sul modello de Don Juan che Brancati, ravvisando in esso l’archetipo dell’uomo siciliano, prova a verificare i fenomeni della società del suo tempo facendo ripetuti esperimenti e inventando fogge le cui varianti plasmano i diversi personaggi della sua cosmogonia letteraria: dove l’elemento di congiunzione non è tanto, nei romanzi come nei racconti, l’ineffabile sembiante della donna-oggetto posta a un grado di corriva sudditanza quanto il processo di autodistruzione dell’uomo-soggetto preda di una “crisi di valori che gli impedisce un inserimento ordinato e naturale nell’esistenza” (Mineo).
L'”extraordinaria” damigella milanese capitata in Sicilia è la prima donna per la quale il cavalier Giovanni non riesce a dormire, la donna che però diventando sua moglie non è più donna. In Il piacere di discorrere della donna, da vedere in forma di foreshadowing di Don Giovanni in Sicilia, la sostanza è sottesa al romanzo è vista nella distinzione che Brancati opera tra la moglie e la donna: La moglie è una cosa, la donna un’altra”. Percolla si sposa perché innamorato di Ninetta, che da oggetto di piacere immaginato diventa incarnazione di un ideale d’amore realizzato. Tra immaginazione e realtà (dimensioni che corrispondono, nella fabula, a Catania e Milano: con l’annotazione, qui in taglio, che Don Giovanni in Sicilia è il solo dei quattro romanzi brancatiani ambientato non a Roma ma nell’estranea Milano), alla fine Giovanni Percolla rimpiange l’immaginazione. In questa chiave il romanzo diventa allora una favola, più vicino a Gli anni perduti che al successivo e omologo Il bell’Antonio, apparendo la storia di Antonio Magnano dettata piuttosto dal bisogno dell’autore di misurare il tema ella sensualità sul banco dell’onore e riuscendo più rispondente a una Catania tradotta in maniera analogica.
E al pari di una favola, per quanto qui ci interessa, Don Giovanni in Sicilia stinge una parodia di Don Juan intridendo uno specimen bozzettistico che vale come rivisitazione del mito spagnolo, ma – nello stesso tempo e con gli stessi modi – anche come strumentoi di demistificazione dell’equipollente mito siciliano dello “ingravidabalconi”, volta peraltro a sostegno di una morale cristiana essa stessa rimessa in discussione se non rovesciata, perché la donna che si vorrebbe per moglie, ci cui ci si innamora a prima vista, tanto da sentire “il lamento con cui ella, nella camera accanto, rende padri di un bimbo perfetto”, quando diventa la propria donna perde ogni fascino di seduzione sicché il sogno realizzato non vale quello solo vagheggiato.
In Don Giovanni involontario, commedia nata in guisa di paralipomeno del romanzo, la moglie diventa per Francesco Musumeci motivo di contrizione (“Io odio la donna! L’insonnia che mi hanno dato prima, il sonno interminabile che mi hanno lasciato dopo”) contro la quale l’unico rimedio è interessarsi a un’altra donna, certamente più giovane: in Don Giovanni involontario è Claretta, in Don Giovanni in Sicilia è Eleonora: figure che richiamano entrambe la Sacha di Cechov, il cui Ivanov è un essere in balia di quella noia che può promanare solo dalla convivenza con una donna sempre uguale. A Giovanni Percolla ammogliato (ma senza figli, spia evidente di un matrimonio non riuscito), memore del discorrere che con gli amici faceva della donna, “sembrava che della Donna ce ne fosse più in quei ricordi che nella sua felicità presente. Ninetta era venuta a liberarlo di alcune schiavitù nei riguardi dell’altro sesso: ma questa sua libertà cominciava a dispiacergli”. E allora sì che “i discorsi sulle donne danno un maggiore piacere che le donne stesse”.
Siamo con Don Giovanni in Sicilia nel campo semantico degli Anni perduti, dei sogni cui dedicare la vita ma da non realizzare mai; siamo ancora a Sogno di un valzer e al dieu fétiche della noia da ritenere un problema di cui discutere ma non mai da risolvere. Don Giovanni è alla fine, come nota Pomilio, “un eroe dei sogni rientrati”, un individuo oblomoviano che del Don Juan di cui è il doppio ha ereditato un senso della voluttà corretto in quello dell’impunibilità, perché il peccato di lussuria è solo immaginato, mai consumato.
Don Giovanni in Sicilia si rivela quindo opera da metter sul conto delle precedenti anche per il ripescaggio che Brancati esperisce di non pochi spunti narrativi. A parte i temi del vento e della noia (ripresi da Gli anni perduti, ma anche da Sogno di un valzer), a parte ancora il prestito che può essergliene venuto, in tema di iniziazione sessuale, qui più vissuta che fantasticata, da Singolare avventura di viaggio, Brancati ha tratto da una delle Lettere al direttore, riportandola pressoché di peso, la parte che riguarda il viaggio ad Abbazia e le pitture di donne grasse della Cappella Sistina; da un’altra parte dalle stesse Lettere ha espunto l’episodio della bambola parigina, mentre dalla “lettera” Notti siciliane e dagli effetti di una notte senza scirocco su due uomini resi insonni, spinti a parlare di “tutto, si può dire” (dove, nel tutto, non è compresa la donna), ha tratto materia per concepire l’idea, elaborata nei coevi Piaceri, della donna come unico argomento di interesse che possa legare due siciliani, explicit proprio dal quale prende le mosse Don Giovanni in Sicilia, per rimanere però ancorato a un proprio retaggio letterario dentro il quale le isotopie amorose, eccezione fatta per quella sorprendente e censurata vorgeschichte che è Singolare avventura di viaggio, sono ispirate a un Don Juan di nuovo genere dedito a una pratica manifestamente apollinea della vita.
Sarà dunque necessario aspettare Paolo il caldo (ma già nella Governante abbiamo un diverso approccio al tema dei sensi pronunciati nella forme di una concupiscenza non rimettibile, mentre in Il bell’Antonio è sul crinale più esplicitato della vergogna che si risolvono le sindromi derivate da un approccio al sesso comunque non conforme a ethos e nòmos) per assistere alla sopraffazione della lussuria e all’espiazione del castigo secondo il mito più proprio dell’eroe spagnolo e quindi per rinvenire le fila lasciate disannodate in Don Giovanni in Sicilia: solo allora l’ebbrezza della vita si tradurrà in quel “mal di vivere” che, essendo patrimonio della cultura umanistica novecentesca, farà di Brancati uno degli interpreti più avvertiti e consapevoli, e per questo più pesantemente tormentato.