
“La storia personale di Rita Atria si intreccia con il periodo piuttosto estemporaneo tra gli anni Ottanta e Novanta quando cominciava l’esperienza dei collaboratori di giustizia dopo le modifiche normative successive ai delitti Falcone e Borsellino. La sua morte così drammatica fu una sorta di campo di prova circa l’uso dei collaboratori: senza gli strumenti di oggi e senza nemmeno la differenza con i testimoni, che sono sempre innocenti o vittime e diversamente dai collaboratori non rispondono di loro reati. Non c’era ancora il sistema di protezione dei collaboratori e Rita Atria si trovò sola, uccisa più che dalla mafia dalla solitudine in cui lo Stato la lasciò. Pagò insomma l’assoluta mancanza di esperienza nel fenomeno dei collaboratori di giustizia”. Sebastiano Ardita, consigliere del Csm, procuratore aggiunto a Catania, per anni direttore del Dap, ha parlato in questi termini del libro Io sono Rita pubblicato l’anno scorso da Marotta&Cafiero e scritto da due giornaliste, Giovanna Cucé e Graziella Proto, e da Nadia Furnari, coordinatrice dell’Associazione antimafia “Rita Atria”.
Ardita, che ha presentato il libro al Campidoglio subito dopo l’uscita, ha parlato anche di lotta alla mafia ricordando qual è il più grosso errore che viene oggi commesso: pensare che la società si divida tra buoni e cattivi: “Un errore clamoroso credere che ci siano persone che hanno scelto di fare del male e altre che sono dalla parte del bene. Non è l’etica la discriminante” ha detto. “La struttura mafiosa è un misto di paternalismo, affidamento, tradizione, conservazione. Quando arrestiamo un mafioso scopriamo che parla una lingua diversa dalla nostra: contestiamo reati che il mafioso non riconosce come tali. Lo smercio di droga, grazie al quale si sostengono le famiglie dei quartieri periferici, non è visto come illegale perché nel codice mafioso è illegale la rapina, il furto, quanto comporta violenza o uso di armi. Moltissime persone vivono in questa cultura submafiosa ma non sono mafiose, perché se lo fossero, noi dovremmo vivere tutti barricati in casa. Questo deve fare capire che non serve la repressione nella lotta alla mafia. Io ho arrestato oltre mille persone e altre sessantamila le ho gestite al ministero di Giustizia e vi assicuro che la repressione è come la chirurgia, che è la parte invasiva della medicina. Accanto all’azione di contrasto occorre fare altro: andare nei quartieri dove lo Stato non arriva e fare ognuno di noi la propria parte”.
Rita Atria, la più giovane testimone di giustizia della storia italiana, la fece fino al punto da perdere la vita a diciassette anni il 26 luglio 1992: denunciò quanto aveva appreso della mafia di Partanna, il suo paese (non esitando ad accusare anche il padre e il fratello, entrambi mafiosi e uccisi in una faida), e ne fece arrestare una cinquantina di persone colluse, inimicandosi tutti, comprese le autorità clericali. In base alle risultanze delle sommarie indagini del tempo, Rita Atria si suicidò lanciandosi da una finestra al settimo piano di un appartamento avuto dal Sistema di protezione in via Amelia 23 a Roma, dove si era trasferita da due giorni. Secondo quanto si è sempre detto, lo fece per sconforto dopo sette giorni dall’uccisione di Paolo Borsellino al quale era particolarmente devota.
Il libro di Cucé, Furnari e Proto mette in dubbio questa soluzione del caso e punta alla riapertura dell’inchiesta. “Non sappiamo ancora nulla” dice Graziella Proto, direttrice de “Le Siciliane”, giornalista nata con “I Siciliani” di Giuseppe Fava. L’inchiesta non è stata aperta, ma il fatto nuovo è un fascicolo che la Procura di Marsala ha numerato grazie ai tanti interrogativi sollevati dal libro. Libro che nasce da una circostanza fortuita: la rivelazione che una donna di Via Amelia fa a Nadia Furnari circa la tapparella della finestra del settimo piano: il 26 luglio 1992 era abbassata.
“Da quel momento – scrive in premessa Nadia Furnari nel libro – non ho avuto più pace: dovevo, dovevamo andare fino in fondo”. Così ne parla con Graziella Proto e intraprende un’inchiesta fatta di accessi agli atti in Procure come Marsala e Sciacca, e al Viminale. Le tante incongruenze scoperte portano a un primo esposto che viene reso noto insieme con la notizia del ritrovamento alla Procura di Marsala di un audio di Matteo Messina Denaro che deponeva nel ’93 in tribunale con il nome di Bonafede. L’audio è messo in onda dal Tg1 per iniziativa della giornalista messinese Giovanna Cucè che così si unisce a Furnari e Proto nel prosieguo delle indagini e nella stesura del libro. Un suo documentario andato in onda su Raiuno sarà poi eliminato anche da Raiplay su richiesta di persone decise a fare valere il diritto all’oblio.
“Nel libro – dice Nadia Furnari – ci sono domande che si basano sugli atti da noi acquisiti. Ma dobbiamo distinguere l’attività di noi autrici e quella giudiziaria che manteniamo riservata ed è seguita dall’avvocato dell’associazione D’Antona, dalla sorella di Rita, Anna Maria Atria, e da me che sono consulente tecnico, oltre che dal direttivo dell’Associazione. Sono cose diverse. Il libro è uscito a maggio dell’anno scorso ma l’attività giudiziaria è proseguita e se non abbiamo voluto fare aggiornamenti è stato per rispettare i tempi della Procura”.
L’inchiesta dovrà dirimere molti dubbi: perché Rita si suicida lasciando la stanza in totale disordine? Perché i carabinieri riferiscono nella loro prima informativa che la carta d’identità era in una pagina sgualcita del diario mentre successivamente una relazione attesta che era dentro una borsa? Perché non vengono trovate tracce di impronte digitali nella stanza? Perché la tapparella è chiusa se Rita Atria si sarebbe fatta cadere nel vuoto appoggiando una poltroncina sotto la finestra? Perché non lascia alcun messaggio dopo aver riempito diari interi di suoi pensieri, riflessioni, propositi e appunti vari? Perché muore quando si trova da sola nell’appartamento del Tuscolano dopo aver chiesto di cambiare casa lasciando quella della Balduina dove non era sola? Perché si toglie la vita proprio il giorno precedente a quello dell’appuntamento a Marsala con il sostituto Alessandra Camassa? Perché viene dagli inquirenti del tempo giudicata un’intenzione suicidaria la frase trovata scalfita su una parete “Il mio cuore senza di te non vive”? Perché viene supposto uno stato alterato di coscienza se l’autopsia dimostra che la ragazza non ha assunto alcuna sostanza esogena, sebbene sul comodino venga trovata una confezione di Tavor? Perché, essendo minorenne, non ha avuto nominato un tutore dopo l’allontanamento dalla famiglia per ragioni di sicurezza? Troppi interrogativi rimasti per trentuno senza risposta. “Abbiamo fatto domande e aspettiamo le risposte” dice Furnari, “ma non ci siamo fermati, perché stiamo seguendo ogni giorno i passi della Procura e continuiamo intanto a svolgere indagini e raccogliere dati. La verità verrà fuori”.
