
Un ventunenne ucciso a Palermo, anche se a cinquanta metri dal Teatro Massimo e non a Brancaccio, non suscita la stessa deplorazione di un coetaneo che abbia la stessa sorte in una città del Nord. Sparare e uccidere a Palermo – e in generale in Sicilia – è una barbarie frutto dello stato di degrado dovuto alla mafia, mentre la stessa cosa in Lombardia – ma anche nel Lazio – è effetto di solo disagio sociale. E come molto tempo fa un medico diagnosticava puntualmente una forma certa di distonia neurovegetativa a un giovane con malesseri sparsi, mentre a un adulto con gli stessi sintomi parlava di sindrome ansiosa, così oggi se un fatto avviene in Sicilia ha già una sua matrice quando altrove è da indagare il malessere sociale.
Alla notizia del delitto del giovane barman, se “Repubblica” ha più volte chiamato in causa lo Zen come aria di provenienza di ragazzi coinvolti in passato in risse mortali, Carlo Calenda, leader di Azione, ha scritto sui social: «La Sicilia è una bomba ad orologeria tra delinquenza, malasanità, infiltrazioni mafiose, corruzione e sprechi. Non possiamo far finta di nulla. Il governo deve intervenire». L’ex ministro avrebbe mai pronunciato le stesse parole in riferimento a qualsiasi altra regione che non fosse, oltre la Sicilia, la Calabria, la Campania o la Puglia? Sembra diventato spontaneo mettere su mezza dozzina di stereotipi per definire una situazione che in realtà è difficile non meno di quanto lo siano altrettanti condizioni territoriali del Settentrione e del centro Italia.
Ma ormai gli opinion maker e i politici che stanno oggi al governo e domani all’opposizione come Calenda non si esprimono se non per marchi e stigmi, retaggio di una cultura che anche quando cambiasse rimarrebbe immutata nell’immaginario politico nazionale, almeno di certi capipartito. Che in casi analoghi di ragazzi recentemente uccisi al culmine di risse di piazza in città settentrionali (Rovigo e Torino per esempio) additano la violenza giovanile, mentre in Sicilia puntano il dito contro la mafia nella versione infiltrante, la delinquenza e per soprammercato, anche se non c’entrano che come Pilato nel Credo, la corruzione, la malasanità e addirittura gli sprechi. Diciamolo allora. Se ci sono politici che, solo ad aprire bocca, fanno male alla Sicilia, sono del tipo di Calenda, che pure vanta in Sicilia iscritti e persino un sindaco e un presidente del Libero consorzio comunale, entrambi a Siracusa: Francesco Italia e Michelangelo Giansiracusa. Chissà che hanno pensato alle parole del loro capo sul delitto palermitano.
A vedere Palermo entro questo stesso cono d’ombra non è comunque soltanto un forestiero qual è Calenda. Anche Lirio Abbate, palermitano, giornalista di “Repubblica”, commentando il fatto, arriva a scrivere: “È mafia questa? È mafia anche questa. È mafia soprattutto questa”. La Mafia ringrazia. Se si vede dappertutto la mafia non si fa che liofilizzarla e renderla una parodia. Bollare come mafiosi atteggiamenti che tali non sono è come chiamare fascisti i reazionari di oggi e parlare di genocidio in riferimento a bombardamenti martellanti e crudeli. Ma insomma: un giovane ucciso da uno del branco nel pieno di una movida by night è davvero per Calenda e Abbate una scena tipica palermitana? O forse non è oggi una costante comune a tutte le città di ogni latitudine?