Salvatore Lupo, ritenuto il mafiologo vivente più avvertito, docente di Storia contemporanea all’università di Palermo, ricorda nel suo libro Mafia (Treccani), che il generale Dalla Chiesa fu fra i pochi a dissentire sull’opinione della Commissione antimafia circa un supposto processo di regressione del fenomeno mafioso. Dunque già negli anni Sessanta fu davvero così sciasciano nella capacità di prefigurare l’insorgenza mafiosa? “Dalla Chiesa – dice – era uno che aveva lavorato (e continuò a lavorare) ciclicamente su queste questioni, già da giovane ufficiale a Corleone e ancor prima nella lotta al banditismo, per cui sapeva che erano sbagliati i metodi di sottovalutazione del fenomeno che spesso si basavano su argomenti pseudo-sociologici e proponevano l’idea di un mondo tradizionale che dovesse scomparire. Conosceva anche per esperienza quali fossero gli aspetti giuridici, giudiziari e politici che una vera guerra alla mafia comportava e che fino a quel momento non erano stati affrontati”.
Nel suo libro lei mette a confronto la mafia degli anni Ottanta e quella di dieci anni dopo e ne misura la distanza e le trasformazioni. Sembra voglia dire che si sia andata come spegnendo.
Gli anni Sessanta sono ormai lontanissimi. La leadership della mafia – e non intendo soltanto quelle dieci persone ai vertici, ma centinaia di persone – è stata duramente colpita. Quasi tutti sono finiti in prigione e la presunzione di impunità, da sempre la grande chiave di volta del potere mafioso, è stata pesantemente messa in discussione. E, cosa rilevante, chi dice oggi che la mafia non esiste, come si sentiva ripetere sempre negli anni Settanta, dice una calunnia, a prescindere se è siciliano. Ma in verità non si trova più nessuno che parli oggi in questi termini.
Sarebbe allora una calunnia dire che la mafia esiste?
Ma no. Certo che la mafia esiste ancora, ma non è più quella lì. È molto meno pericolosa. Si anniderà in qualche giro d’affari, in qualche luogo sotterraneo, ma spesso viene tenuta sotto mira con microspie, intercettazioni… La lotta non è più quella perdente di un tempo.
Molti dicono che si sia come imborghesita.
E dove lo vedono questo imborghesimento? La mafia è sempre stata imborghesita, ha avuto sempre una funzione pubblica forte. Questa recente e presunta modificazione di cui fantasticano certi magistrati non sarebbe altro in realtà che la sua profonda natura. Che la mafia sia molto cambiata è un fatto, ma è cambiata per le nuove posizioni in cui Stato e società in genere si sono attestati.
Dunque sta vincendo lo Stato la partita, stando almeno al punteggio parziale?
Sì, se fosse solo questa la partita. Ma sono in corso molte altre partite, diciamo, di legalità. Persistono nel nostro Paese condizioni che sono favorevoli o rendono plausibile la ripresa dell’organizzazione mafiosa, che è forte di molte tradizioni e di molte risorse. Quindi non esulto per nessuna vittoria, però nemmeno si deve dire che non è cambiato niente o addirittura che le cose sono peggiorate.
Eppure è una vulgata forse corriva ma certamente corrente quella secondo cui la mafia non è cambiata.
Beh, l’opinione pubblica si bea di questi radicalismi che i magistrati avallano facendosi professionisti non più dell’antimafia ma autoreferenziali. Siamo insomma entro una tradizione che getta l’allarme e continua a ripetere per quaranta, cinquant’anni lo stesso refrain.
Sta forse dicendo che lo spirito del 3 settembre deve cambiare?
Il rischio è che questa memoria diventi sempre più tenue e sterile.
Eppure Nando Dalla Chiesa ha detto che mai come per il quarantennale ha visto attorno a suo padre tanta solidarietà.
Quella è la percezione di un figlio che ha avuto il padre ucciso dalla mafia, comune a tutti i parenti delle vittime di mafia: quindi va compresa e ammessa. Ma a me sembra, torno a dire, che col tempo la memoria storica – e non parlo del solo Dalla Chiesa – non possa che affievolirsi mentre si continua a tenere indebitamente alto l’allarme sociale. Con il risultato, come si vede proprio per il caso Dalla Chiesa, di continuare a cercare anche dopo mezzo secolo fantomatici mandanti collocati chissà dove. È stucchevole. Più il tempo passa e più la stagione del terrorismo politico-mafioso appare difficile da capire, perché siamo in un’altra epoca: eppure le tesi che vengono sostenute hanno bisogno di essere sofisticate, per modo che scatta come un riflesso abbastanza usuale in base al quale si pensa che la gravità del risultato, la sua grandezza, abbia bisogno di una causa altrettanto grande. Insomma si rifiuta di accettare, nonostante le risultanze processuali, che quattro pecorai siano stati i soli capaci di provocare tanti sfracelli. E allora si fa confusione e si stempera una storia cercando disperatamente di averne un’altra.
Quindi è giunto il momento di storicizzare il delitto Dalla Chiesa e non pensare più di riportarlo sui tavoli delle Procure, smettendo di pensare a “terzi livelli”?
Le Procure non hanno davvero più niente. Il caso è oggi divenuto assolutamente materia degli storici. Come anche la vicenda della ‘Trattativa Stato-mafia’: anche lì la giustizia si è pronunciata e dopo decenni di indagini e processi l’ultima sentenza ha sancito quello che era ovvio. Non ci sono state responsabilità e implicazioni politiche.
Se le cose stanno così e sono cambiate, il sacrificio di Dalla Chiesa è servito a contribuire al mutamento?
Come di tutti gli altri. Dalla Chiesa ha avuto personalmente il merito di avere scoperchiato le trame investigative, di essersi reso conto che la lotta alla mafia non poteva essere un problema di ordinaria amministrazione, che non si fa un’indagine di mafia senza prima un’indagine per i fatti criminali.
Ha quindi agito in linea con Falcone. Ma secondo lei chi dei due ha fatto più male alla mafia?
Falcone, senza dubbio. Volendo badare ai risultati, il maxiprocesso è stato merito solo suo, segnando la vera svolta dell’antimafia.