Ottantatré anni fa ad agosto, in un giorno rimasto imprecisato, ma quasi certamente il 19, decedeva ad Auschwitz Irène Némirovsky, la scrittrice ucraina di origini ebraiche emigrata a Parigi e autrice di Suite francese, il grande affresco della Francia conquistata dai nazisti diviso tra il racconto della fuga dalla capitale e la vita in un paese dell’entroterra dove nasce un amore tra un ufficiale tedesco e una sfollata. Secondo alcune fonti la Némirovsky morì nel lager di febbre tifoide, mentre per altre trovò la morte nella camera a gas, come toccherà al marito Michel a novembre dello stesso 1942.
Fu proprio Michel Epstein a dattiloscrivere la prima delle due parti del capolavoro della Némirovsky, intitolata Tempesta in giugno (le altre tre previste sono rimaste in forma di Appunti), copia sulla quale l’autrice apportò ulteriori variazioni a penna fino al giorno dell’arresto. Insieme con il manoscritto di Suite francese, negli anni Novanta pubblicato dalla figlia Denise, il dattiloscritto fu affidato dalla stessa Denise all’Imec di Parigi dove una studiosa barese, Teresa Lussone, lo ha scoperto, tradotto in italiano e curato dandolo quindi alle stampe per Adelphi con lo stesso titolo. “Il termine ‘scoprire’ è certamente molto affascinante – dice la Lussone – ma in verità quello che ho fatto è dimostrare che anche questa redazione del romanzo meritava di essere letta, sia per il suo valore letterario sia in quanto testimonianza degli ultimi giorni di lavoro della scrittrice”.
Il romanzo, uscito nel 2022, è un remake della prima parte di Suite dal quale si distingue significativamente, ma non al punto da potersi dire la stesura definitiva e ufficiale, dal momento che non fu proposto ad alcun editore né la scrittrice lo considerò terminato. Costituì tuttavia la versione “corretta”, tale da far pensare che la prima parte di Suite francese receda adesso a mera stesura. “Assolutamente no – nega la curatrice. – La funzione di questa nuova edizione non è quella di mettere in discussione la prima pubblicazione del romanzo. Tutt’altro. Mi sembra invece che ci troviamo davanti alla consacrazione di Némirovsky come grande scrittrice. Di quanti e quali scrittori accettiamo di leggere due versioni di una stessa opera? Tasso, Manzoni… E adesso sono stati pubblicati i 75 fogli di Proust. Le sostanziali differenze tra le due versioni ci permettono di interpretare questa come un testo altro: la sua pubblicazione a mio avviso deve intendersi come la prosecuzione del lavoro di riscoperta della scrittrice avviato da Denise Epstein”.
Ma quali sono le differenze? “Il destino di alcuni personaggi cambia completamente – spiega la Lussone. – Nel caso di Philippe Péricand, per esempio, il racconto viene modificato dopo che la scrittrice è stata informata di quello che era avvenuto al prete che fungeva da modello. Inoltre, tutta l’opera è rimaneggiata a livello stilistico: Némirovsky riscrive la sua opera anche seguendo l’influenza tecnica e formale dei testi che leggeva in quel momento, quelli di Lubbock e Forster”.
Gli inglesi Percy Lubbock e Edward Morgan Forster furono i soli teorici ai quali la Némirovsky attinse per definire non solo uno stile ma anche un metodo. Gli Appunti di lavoro che ha lasciato per i romanzi futuri (riportati in Tempesta in giugno) meritano un’attenzione speciale proprio per lo spirito con cui l’autrice trattava la propria opera, che portava come in un laboratorio dove nulla fosse lasciato all’invenzione letteraria ma facesse parte di un progetto definito in ogni dettaglio. “Il lavoro di scrittura – comemnta Lussone – è sempre preceduto da una lunga fase di progettazione che riguarda i caratteri dei personaggi, le loro vicende e anche la ricerca stilistica”.
Entro tale prospettiva un elemento di distinzione tra i due testi omologhi è dato da una ricerca di maggiore impersonalità e distacco che ricorre in Tempesta in giugno rispetto alla prima parte di Suite francese, prova di uno sforzo stilistico di cui si trova traccia negli Appunti annessi a Suite, dove confida a se stessa: “La mia idea è che la vicenda si svolga come in un film, ma di tanto in tanto la tentazione di fare conoscere il mio punto di vista è forte”.
In Tempesta in giugno la Némirovsky riesce con esito maggiore nell’intento, benché la tentazione sia ancora più sentita, visto l’incalzare degli eventi bellici e il presentimento del proprio destino. Questa coscienza la rende caustica con la Francia, tacciata già di viltà in Suite francese non meno che in Tempesta in giugno, se negli Appunti scrive che nella sconfitta si è eroi e nella vittoria divinità: ciò che nella prefazione induce la Lussone a parlare del romanzo come di una “Odissea senza gloria”, dove la gente non torna ma scappa.
Come nel manoscritto di Suite (preferito dalla figlia Denise forse perché più completo del dattiloscritto, comprendendo anche la seconda parte intitolata “Dolce”), il dattiloscritto di Tempesta evita di parlare di ebrei, a differenza del fortunato romanzo d’esordio, David Golder, dove narra di un ricco banchiere russo di stirpe ebraica che arriva al fallimento contro lo stereotipo invalente, e di I cani e i lupi che è appena del 1940. Probabilmente farlo nel 1942, nel pieno della persecuzione giudaica, avrebbe significato perdere ogni editore, senonché fu proprio l’avversione sionista di cui aveva dato mostra nei precedenti libri a spingere il marito a chiederne la liberazione.
Michel si rivolse anche all’ambasciatore tedesco a Parigi, ma non alla madre di Irène, Fanny (nome ebraico Faiga), che viveva a Nizza con falsi documenti lettoni e sfuggita al nazismo, tanto da vivere per altri trent’anni in Costa Azzurra. Probabilmente la madre avrebbe potuto fare ben poco, ma pesò soprattutto l’indifferenza che aveva dimostrato alla figlia sin dalla nascita, la stessa che poi avrebbe manifestato alle nipoti Denise e Elisabeth.
Irène Némirovsky è stata figlia di questo clima familiare, buio e cupo come quello vissuto dopo l’insorgenza nazista. “Nel suo ultimo romanzo – dice Teresa Lussone – Némirovsky raffigura una società terrificata dinanzi agli eventi. Sembra esserci un pessimismo di fondo rispetto alla natura umana, eppure non manca qualche slancio di generosità, spesso gratuito, inaspettato, persino sorprendente. Sarà questo che lo rende un capolavoro?”.

In Tempesta in giugno, come anche in Suite francese, non si parla di ebrei a differenza che in titoli quale David Golder. Eppure Michel Epstein, scrivendo all’ambasciatore tedesco, ricorda l’avversione nutrita dalla Némirovsky per il sionismo. Come spiega questo silenzio nell’ultima parte della vita dell’autrice?
La presunta avversione al sionismo di cui lei parla a mio avviso è un falso mito, un fraintendimento (persino un’enorme sciocchezza, direi!!!) che non tiene conto del momento storico in cui Némirovsky vive e scrive. Némirovsky ricorre a topoi letterari che all’epoca non potevano avere il senso che assumono ai nostri occhi oggi.
C’è un libro molto bello di una ricercatrice inglese, Angela Kershaw, Before Auschwitz, che ci invita a leggere i testi della scrittrice collocandoli nel momento storico in cui sono stati scritti. E del resto, alcuni scrittori ebrei ricorrono a questi stereotipi ancora oggi senza che siano accusati di antisemitismo: ha mai letto Yasmina Reza, solo per farle un esempio? Io sono tra quelli che non credono che la letteratura debba necessariamente essere politicamente corretta. Tanto più in un’epoca in cui la nozione politically correct non esisteva, almeno non come la intendiamo oggi. La letteratura, la vita e le ideologie hanno legami stretti ma non sono sovrapponibili. Confonderli è un errore enorme. Ha letto Contro l’impegno di Siti? Alcuni giudizi contenuti in questo testo che ha fatto molto rumore a mio avviso sono troppo rapidi, ma il principio di fondo è condivisibile: la letteratura ossessionata dal bene è destinata all’impoverimento.
L’ultimo romanzo di Némirovsky in cui compaiono personaggi ebrei risale al 1940, I cani e i lupi: non è poi così lontano nel tempo. In Suite francese Irène Némirovsky si concentra sulla società francese, è quello che le interessa in questo momento. La durezza mista a pietà con cui guarda questa società è esattamente la stessa con cui aveva osservato gli ebrei. Questo è il secondo aspetto che ci consente di mettere in discussione la presunta “avversione al sionismo” di cui parla lei. E infine, non crede che scrivendo un libro sugli ebrei nel 1942 sarebbe incorsa più facilmente nella censura? Che poi non sia riuscita a finire questo romanzo per le ragioni che sappiamo, è un’altra faccenda…
Fanny, la madre di Denise, è morta nella camera a gas come lascia intendere Myriam Anissimov o nel lager di febbre tifoide, come sostiene gran parte delle fonti?
Per tutte le questioni biografiche l’unica fonte attendibile è La Vita di Irène Némirovsky di Olivier Philipponnat e la cronologia che segue le Œuvres complètes a sua cura: Fanny Némirovsky è morta il 9 luglio 1972 ed è stata sepolta a Belleville, a Parigi (Œuvres complètes, p. 1898).
Fanny visse, anche agiatamente a Nizza, dove la caccia agli ebrei non era certo meno feroce. Come riuscì a sfuggire alla cattura e ad avere un destino diverso da suo figlio?
Come sopra: Philipponnat racconta che si trovava in Costa Azzurra con falsi documenti lettoni (Vita, p. 372).
Perché, a stare all’epistolario disponibile, Michel Epstein non si rivolse mai alla suocera per dirle della sorte di Iréne e chiederle di fare qualcosa?
Francamente dubito che sua suocera avesse conoscenze utili per aiutarli, ma è la mia personale opinione e non credo che conti o abbia interesse.
Come ha fatto a trovare sepolto in archivio il dattiloscritto di Tempesta in giugno? Cosa l’ha portata sulle sue tracce quando non c’era nessuno a cercarlo?
Il dattiloscritto è stato depositato negli archivi dalla figlia della scrittrice, Denise Epstein. Il termine “scoprire” è certamente molto affascinante, ma in verità quello che ho fatto è dimostrare che anche questa redazione del romanzo meritava di essere letta, sia per il suo valore letterario sia in quanto testimonianza degli ultimi giorni di lavoro della scrittrice. A farmi conoscere Némirovsky e a spingermi a studiarla è stato il mio professore, Francesco Fiorentino, fin dai tempi della mia tesi di laurea, tra il 2005 e il 2006.
Lei trova il dattiloscritto una decina di anni dopo che Denise Epstein scopre Suite francese. Se lo avesse trovato prima, Suite francese avrebbe potuto avere una diversa sorte?
A dire il vero non credo che domande del tipo: “cosa sarebbe accaduto se…”, genere Sliding doors, abbiano senso né in questo caso né nella vita in generale. Faccio un breve riepilogo della vicenda. Irène Némirovsky immaginava un’opera in cinque parti. Per capire cosa intendesse per “parti” pensiamo al modello della Ricerca di Proust, in cui le varie parti che compongono l’opera hanno una relativa indipendenza. La scrittura di Suite francese si articola in tre fasi: la prima stesura, quella del manoscritto, comprende le prime due parti del romanzo, Tempesta in giugno e Dolce, le uniche che Némirovsky riuscì a completare. Segue un primo dattiloscritto di cui ci restano frammenti. Infine abbiamo una terza stesura, quella del dattiloscritto pubblicato oggi, che comprende una versione di Tempesta in giugno piuttosto diversa da quella del manoscritto. Denise Epstein conosceva sia il manoscritto che il dattiloscritto: ha scelto il manoscritto perché le sembrava una testimonianza più diretta del lavoro di sua madre. Ma la sua scelta è legittimata anche dal fatto che la versione del manoscritto era la più completa, dato che presentava per intero le prime due parti del romanzo.
Appare evidente che la Némirovsky preferisse la nuova versione “corretta” di Tempesta in giugno, tanto da averla voluta dattiloscritta. Quindi la prima parte di Suite francese recede adesso a mera stesura?
Assolutamente no. La funzione di questa nuova edizione non è quella di mettere in discussione la prima pubblicazione del romanzo. Tutt’altro. Mi sembra invece che ci troviamo davanti alla consacrazione di Némirovsky come grande scrittrice. Di quanti e quali scrittori accettiamo di leggere due versioni di una stessa opera? Tasso, Manzoni… adesso sono stati pubblicati i 75 fogli di Proust… Inoltre, le sostanziali differenze tra le due versioni ci permettono di interpretare questa versione come un testo altro: la sua pubblicazione a mio avviso deve intendersi come la prosecuzione del lavoro di riscoperta della scrittrice avviato da Denise Epstein.
L’autrice ha lasciato due versioni di Tempesta in giugno, entrambe dattiloscritte. Ma ce n’è una terza che è solo un abbozzo di qualche pagina. Definitiva e ufficiale può dirsi quella indicata come “terza fase”. Secondo lei è letterariamente la migliore?
Due osservazioni: 1) Le due versioni non sono entrambe dattiloscritte. C’è una versione manoscritta e una dattiloscritta. 2) Stiamo parlando di un romanzo postumo, non esiste una versione definitiva e ufficiale. Irène Némirovsky non ha consegnato il dattiloscritto a un editore. In linea generale quando abbiamo a che fare con un romanzo postumo accettiamo che la scelta di pubblicare una versione piuttosto che un’altra sia in parte “arbitraria”. Siamo costretti a prenderci le nostre responsabilità in quanto filologi, studiosi, editori… Forniamo delle prove a sostegno delle nostre ipotesi, ma queste ci aiutano fino ad un certo punto e non ci sgravano dalla scelta e dall’assunzione di responsabilità. Sarei ipocrita se presentassi questa versione del romanzo come definitiva. In ogni caso “migliore” è un giudizio troppo secco, del tutto inadatto a descrivere un’opera letteraria in tutta la sua ricchezza, la sua complessità, le sue sfumature…
In cosa la “terza fase” si distingue dalle precedenti e dalla prima parte compresa in Suite francese?
Il destino di alcuni personaggi cambia completamente. Nel caso di Philippe Péricand, per esempio, il racconto viene modificato dopo che la scrittrice è stata informata di quello che era avvenuto al prete che fungeva da modello. Inoltre, tutta l’opera è rimaneggiata a livello stilistico: Némirovsky riscrive la sua opera anche seguendo l’influenza tecnica e formale dei testi che leggeva in quel momento, quelli di Lubbock e Forster.
Perché la Némirovsky fu così acribitica e pignola nel costruire la sua “Tragedia umana”? Gli Appunti, anche quelli per le parti mancanti di Suite, provano che non concepiva un romanzo che non fosse il frutto di un progetto particolareggiato. Non era insomma all’ispirazione sorgiva e istantanea che affidava la sua vena. Cosa ne pensa?
Non la definirei “pignola”. Direi che era attenta, che non licenziava il lavoro fino a che non ne era pienamente soddisfatta. Questo è il metodo di lavoro di Némirovsky: il lavoro di scrittura è sempre preceduto da una lunga fase di progettazione che riguarda i caratteri dei personaggi, le loro vicende e anche la ricerca stilistica. L’ispirazione sorgiva e istantanea non esiste in letteratura o almeno io non l’ho mai incontrata.
Irène Némirovsky fu caustica con la Francia, tacciata di viltà. Non fu un atteggiamento momentaneo se in Tempesta in giugno rende tale avversione più definite. Negli Appunti scriveva che nella sconfitta si è eroi e nella vittoria divinità. Ma non vide alcun eroe, tanto che lei parla di Tempesta in giugno come di una “Odissea senza gloria”, dove la gente non torna ma scappa.
Nel suo ultimo romanzo Irène Némirovsky raffigura una società terrificata dinanzi agli eventi. Sembra esserci un pessimismo di fondo rispetto alla natura umana, eppure non manca qualche slancio di generosità, spesso gratuito, inaspettato, persino sorprendente. Sarà questo che lo rende un capolavoro?