
Uscito esattamente un anno dopo la morte, La mia Battaglia di Franco Maresco (Il Saggiatore, pp. 192, euro 18) si presenta come un omaggio reso alla nota fotografa palermitana da parte di un regista, anch’egli di Palermo, che ha condiviso con lei una lunga e intesa amicizia. Il titolo del libro ripete quello del documentario realizzato in occasione della mostra sulla Battaglia che nel 2016 venne allestita al Maxxi di Roma. Fu la stessa fotografa a chiedere a Maresco un breve film a beneficio dei visitatori della sua retrospettiva perché la conoscessero meglio.
Ma un altro film-documentario lega il regista e la fotografa. Realizzato nel 2019, “La mafia non è più quella di una volta” vantava la partecipazione della fotografa palermitana che vi versò pubblicamente il proprio risentimento nei confronti delle commemorazioni festaiole delle stragi del ’92 e vi testimoniò l’agrodolce del suo rapporto con Palermo, lo stesso da sempre nutrito da Maresco. Il film venne presentato al Festival di Venezia dove ottenne il premio della giuria che riconobbe in esso lo stesso tenore grottesco e lo spirito irriverente propri di “Belluscone”, il film capodopera di cui costituisce come un seguito. Maresco non andò a Venezia (“Per motivi personali” dice oggi) e lasciò che fosse Letizia Battaglia a ritirare il premio, nonostante i problemi di salute che già la affliggevano e con cui aveva dovuto fare i conti nei tre anni di lavorazione del film. Un atto di attaccamento al film, ma anche un attestato di amicizia all’amico regista, comprovata dal fatto che non si è mai sottratta alle sue domande anche spinose nel quadro di una composita intervista a tappe e brani tenuta tra un ciak e l’altro, un viaggio in aereo, una corsa in auto per raggiunger l’Albero di Falcone.
Domande e risposte, comprese in un arco di tempo che va dagli anni successivi alle stragi alla preparazione dell’ultimo film, costituiscono il nerbo del libro che Maresco ha pubblicato accettando il ruolo dell’intervistatore e quindi una posizione di secondo piano, sebbene in più parti sia evidente come il genere della conversazione, soprattutto in tema di cinema e di mafia, abbia la prevalenza e ponga sullo stesso piano regista e fotografa: due figure che, da posizioni diverse, hanno raccontato la Palermo degli ultimi cinquant’anni avendo con la città un rapporto tanto intenso quanto tormentato, un’ossessione per la Battaglia e un rovello per Maresco.


Dalla conversazione diacronica tra i due intellettuali, che più degli altri si sono interrogati sul destino e la natura della loro città, emergono aspetti della celebrata fotografa, più amata che detestata dai palermitani, fatti per ravvivare nuove polemiche. Il sostegno incondizionato e tenace sempre mantenuto nei confronti di Leoluca Orlando, che la volle deputata regionale della Rete e poi anche sua assessora, è spinto al punto da giustificare il j’accuse mosso a suo tempo dal sindaco al giudice Falcone perché aprisse i suoi cassetti e facesse i nomi dei mafiosi in doppiopetto. E ciò nonostante il rapporto di vicinanza che nello stesso tempo intratteneva con Falcone, con lei sempre prodigo di consigli in occasione di ripetute minacce personali e attentati.
“È vero – conferma Maresco. – Lei esercitava a favore di Orlando un’appassionata difesa che andava oltre ogni logica. Non potevo essere d’accordo. Orlando è stato un Ufo negli anni Ottanta, sia dentro la Dc che in una città che andava alla deriva. Ma col tempo non si è mostrato tale e, per quanto mi riguarda, ho cambiato opinione non mancando di criticarlo. Del resto lui stesso ha detto che non sarebbe democratico uno Stato se non riconoscesse il diritto di critica. Oggi è appunto molto criticabile, ma questo Letizia non voleva nemmeno sentirlo dire”.
La fotografa esaltava Orlando e deprecava Santa Rosalia, che diceva di non sentire vera, mentre trovava insopportabile la devozione portata a Padre Pio nei quartieri popolari. Racconta a Maresco che da assessora fu costretta alla Kalsa ad accettare l’erezione di una statua di Padre Pio in cambio dell’affissione di una targa che ricordasse Falcone e Borsellino, nati proprio nel quartiere. Anche di Leonardo Sciascia era diventata una detrattrice dopo averlo molto amato. Difendendo a denti stretti Orlando, indicato da Sciascia come uno dei “professionisti dell’antimafia”, dice a Maresco che lo scrittore “quella volta non capì”, che era a conoscenza della vecchia mafia e che “fece un danno enorme”. Più precisamente afferma: “Non doveva accusare Borsellino e Orlando. Ma poi, mi chiedo, com’è che gli venne in testa? Non lo so, forse stava male quel giorno, non lo so. Mi cadde dal cuore. Da allora forse non ho più aperto un suo libro”.
Servito Sciascia, ne ha anche per Gianfranco Micciché. Quando Maresco le racconta l’episodio in cui l’esponente berlusconiano gli disse che avrebbe affidato le sue figlie a Dell’Utri, tale era la stima, Letizia Battaglia osserva: “Io credo che questo sia proprio un comportamento… mafioso? Ci si affida ai padri mafiosi per il bene della propria famiglia, del proprio lavoro, della società. Credo che sia proprio un pensiero di cultura mafiosa”. Ricorda Maresco di aver raccolto la testimonianza di Miccichè durante la lavorazione di “Belluscone”: “Non mi sorprese la passione con cui difendeva Dell’Utri e metteva in gioco le figlie, giacché era arrivato anche a dire che se gli avessero portato le prove della sua colpevolezza era pronto ad andare in carcere con lui. La mia opinione all’osservazione di Letizia? Beh, era contenuta nella stessa domanda su cosa ne pensasse”.
Due personalità forti a confronto, unite dall’avversione contro la mafia, dal dolore per lo svilimento di Palermo, dalla lucidità dello sguardo sulla città, dal cinema e dalla fede per una Sinistra che né il Pci né il Pds né i Ds hanno saputo interpretare, tanto da aver fatto di lei una simpatizzante della Sinistra extraparlamentare e di lui una coscienza anarchica, come ammette oggi, allergica alle tessere di partito. Entrambi fanno da specchio a un’epoca che ha segnato nel male e nel bene la città. “Ma quel che unisce le persone – precisa il regista – è il fattore umano, che viene prima di ogni altro valore. Per Letizia provavo simpatia e ammirazione sin dal primo incontro. A lei piaceva il mio lavoro, tanto da prestarsi sempre e contro ogni fatica, ed io sin da ragazzino ero colpito dalla sua meravigliosa esperienza professionale, dalla militanza, dalla memoria storica che mostrava, dalle stesse magnifiche foto che scattava. La conobbi personalmente nel ‘73 quando era arrivata da poco da Milano perché pensavo di seguire un corso di fotografia e poi la rividi in occasione di un delitto di cronaca, ma fu Goffredo Fofi, dopo le stragi, a presentarmela in un convegno a Palazzo delle Aquile e dare così via a una grande amicizia. Poche persone ho conosciuto di tale generosità e forti di una personalità davanti alla quale ci si poteva sentire rimpicciolire. Ma con me ha stabilito un rapporto alla pari, fatto di grandi condivisioni come anche di divergenze. A marzo dell’anno scorso, un mese prima che morisse, avevo appuntamento con lei per un’intervista in vista di un mio film, ma mancò all’impegno perché se n’era scordata ed era partita per il Settentrione. Si scusò e mi promise che ci saremmo visti al suo ritorno. Ma è tornata solo per morire”.
