
Severino Santiapichi fu il giudice del caso Moro, di Agca e delle Brigate rosse e in questa veste la stampa nazionale lo ha ricordato alla sua morte nel settembre 2016. Ma fu anche un finissimo letterato e uno scrittore di uno stile originalissimo. E fu un fervente sciclitano, tanto da lasciare Roma, andato in pensione, e vivere a Donnalucata e in un bel palazzo storico al centro di Scicli. Chi scrive ha goduto della sua generosa amicizia. Tra i tantissimi episodi, mi piace ricordare, a designare un tratto della sua personalità, una sera d’estate in una trattoria della costa iblea, quando la sua scorta di sei uomini della polizia sedette a un tavolo separato e lui volle che prendessero posto con noi. Insieme con il prefetto allora di Ragusa, Antonino Prestipino Giarritta, ha incarnato il senso più pieno ed elevato dello Stato, che non detiene un potere ma esercita un’autorità e non mette timore ma infonde sicurezza e fiducia.
Da scrittore Santiapichi ha lasciato molti articoli di memorie apparsi su fogli locali e non, ma anche tre libri, il più importante dei quali – una perla nascosta della letteratura del Novecento, raccolta con ogni merito dalla Rizzoli – uscì nel 1995: Romanzo di un paese. Diceva Hawthorne che un romanzo è come un’edera: per crescere ha bisogno di ruderi. Quello di Santiapichi è un romanzo che può essere letto come tale, ma anche come trattato etnografico, baedeker turistico, saggio di costume, libro di storia, silloge di egloghe, poema epico, raccolta di racconti, diario Intimistico. E anche come esercizio di stile.

È innanzitutto un romanzo di storia, se non storico, ma ha anche un carattere di epos che lo muta in un poema. E del poema ha una musicalità cadenzata, come su versi liberi che sembrano alessandrini. Prima ancora del contenuto, imposta la forma. Il periodare vagamente proustiano (fato perlopiù di proposizioni lunghe e ricche di incidentali), conforme agli insegnamenti primonovecenteschi europei in fatto di recupero della memoria, integra uno stile lavoratissimo che, riportando l’autore a esperienze di tipo neosperimentalista, alla maniera dei Novissimi e di tipo espressionistico di genere gaddiano, lo dota di un linguaggio personalissimo, approdando a esiti che danno argomento alla indistinta corrente post-decadentista e più propriamente neoavanguardista che ha liquidato il romanzo psicologico al pari di quello neorealista. In Santiapichi questa ricerca sembra spinta fino ad adombrare soluzioni del tipo di quelle suggerite appunto dal Gruppo 63 o del Nouveau roman, in ciò che è l’astrazione dei personaggi e della trama, la rarefazione dei dialoghi e la frammentazione del racconto. Di più. Santiapichi non si lascia vincere dalla tentazione propria degli autori siciliani contemporanei, da Consolo alla Grasso, da Camilleri alla Cassa Scalia, di rigenerare il linguaggio in un geyser di lingua nazionale e di dialetto che nel forgiare spericolati neologismi esaurisce il suo discorso stilistico.
Indulgendo a un linguaggio sorvegliatissimo che molto vagamente potremmo comprendere nello specimen di barocco, accettando una denominazione spicciamente invalsa nella critica per catalogare i maggiori scrittori siciliani, Santiapichi è a Giuseppe Bonaviri che può essere accostato e per altri versi a Lucio Mastronardi. Al Bonaviri del Sarto della stradalonga e ancora di più di Notti sull’altura e al Mastronardi del Calzolaio di Vigevano per quanto riguarda, in entrambi, il mix tra mito e realtà, la lingua colorata e saporosa, la scelta di identificazione nel proprio paese natale, l’aderenza a il modulo narrativo gorgogliano.
Ma in Santiapichi manca il tratto angosciante che segna le «rinnovazioni metamorfosanti» di Bonaviri, come manca il teatrino di tipi ossessionati di Mastronardi. Seppure il paese di Bonaviri, Mineo, sia omologo a quello di Santiapichi, a prevalere nell’autore sciclitano è il sentimento elegiaco. E mentre la vena onirica di Bonaviri si stempera in una revêrie parentale, tutta tenuta dentro la cerchia della propria famiglia, pur sullo sfondo delle vicende del proprio paese, quella di Santiapichi trascende l’archetipo familiare fino a intessere un granguignolesco e negromantico cosmorama che, come in una lanterna magica, proietta persone e figure su un fondale di ombre prese dal vero della storia comunale.
Allure personalissima perciò quella di Santiapichi, che scrivendo il suo romanzo, aveva pensato di Intitolarlo “Litanie siciliane” volendone fissare il carattere larmoyant, per poi preferire invece il titolo definitivo, che appare maggiormente in linea con lo spirito mitizzante di un racconto di mimi. Il libro avrebbe potuto chiamarsi anzichenò “Storia di un paese”, ma non avrebbe colto il mood con il quale Santiapichi si è al paese avvicinato. Pur essendo alla fine una storia vera, con persone e luoghi realmente esistiti, con fatti riportati con assoluta fedeltà, con luoghi chiamati con il loro vero nome, l’autore ci ha dato una favola reale e come tale inverosimile, perciò ancora più fascinoso.
Il richiamo inevitabile e più immediato è Cent’anni di solitudine di García Márquez, il carosello di una Macondo sospesa nel tempo, geograficamente evanescente, storicamente indefinita, con personaggi reali e perciò immortali. Santiapichi ha preferito non dare alcun nome alla sua Macondo, scegliendo di legare al paese, facilmente riconoscibile in Scicli, l’idea universale di paese tout court, la stessa idea di «città del mondo» del Vittorini che guarda Scicli come un topos carico di forti significati allegorici nel senso della realtà apparente contrapposta a quella mitica. Ed è infatti Scicli, mai nominata, la città del mondo di Santiapichi, «la Gerusalemme di Rosario», la città per eccellenza. E di Scicli Santiapichi riscrive la storia, valendosi dei propri ricordi e delle proprie ricerche d’archivio; e pur non andando oltre un circoscritto periodo di tempo che corrisponde alla sua vita da giovane, riesce a darci una rappresentazione che rende il paese irresistibilmente desiderabile. Chiuso il libro, la voglia è di andare a Scicli e vedere i luoghi dell’anima come Jesu, El Der, Khiafura, Bauso. Stella, Belad, Xifazzo, ruderi da romanzo e perciò immaginifici toponimi popolati da figura ancor più romanzate, ognuna con un suo eponimo: donna Rosina la Neri che dispensa bignè, donna Concettina la Palomma che slatina i paesani e difende l’unità familiare e le apparenze sociali, Don Angelo il barbiere, Don Emanuele il libraio, Tommaso il salato, Succhiapidduottili, Maestro Santospagnuolo, Don Papè la Procchia, Corrado il cantastorie, i due «Ragusane di sotto e di sopra», i «roba di piazza».
I tipi sono verghiani e rivelano l’appartenenza al mondo popolare, ma delle figure alla don Gesualdo non hanno né l’ésprit veristico che ne fa delle persone reali né lo spleen poetico che ne fa dei Vinti. La loro presenza è invece gioiosa e cristallizzata nel tempo. Irreale quindi. E non a caso Santiapichi divide il romanzo in due parti: la prima posta sotto il titolo “L’Eterno” e la seconda sotto quello «La rottura dell’Eterno». I personaggi conosciuti nella giovinezza e vissuti presumibilmente negli anni Trenta si fissano nel ricordo dell’autore con un carattere di eternità e come tali ci vengono presentati, parte di un mondo immutato, felice, nel quale Santiapichi non riesce a nascondere il cocente rimpianto e l’inossidabile legame. «Luoghi di ristagno» li chiama e certamente ristagno della memoria. Poi, in un tempo che corrisponde alla adulta dell’autore, questo incantesimo si infrange contro il «progresso» e l’eternità si rompe e a questo punto Santiapichi rinuncia a inzuppare le sue medelaines nel passato, nel cui ambito l’uso dell’imperfetto è incaricato di integrare uomini e fatti, comprese per esempio le feste religiose che, pur sopravvissute fino ai nostri giorni praticamente intatte, le ritroviamo come remote trasfigurazioni appartenute ai miti del paese.
Ed è proprio il ritorno ai miti, il back to basic, che guida il passo dell’autore, ispirato dal mito originario, quello della «gioia» (e Gioia è anche il nome dato all’«Uomo vivo») che «se è goduta apertamente atterrisce i paesani, perché figlia il dolore». La narrazione storico-favolistica di Scicli non si interrompe però di colpo, mancando di dare un senso compiuto al libro. La vera trama del romanzo è infatti quella non raccontata e che, pur rimasta come un’arrière pensée dell’autore, scandisce la storia del paese e volge il romanzo in un riuscito récit. Gioia e dolore sono i paradigmi che segnano la vita del paese perché strettamente dipendenti dal mito dei «paesani spersi nel mondo», categoria alla quale lo stesso autore si sente di appartenere, in ottemperanza alla vocazione siciliana che secondo Vittorini è quella di partire. Il mito dei «paesani spersi nel mondo» (ma più esatto è forse pensare ai paesani sospesi del mondo perché tenuti sempre nella speranza di tornare nella loro Itaca) designa il più capiente mito della precarietà che la coscienza storica sciclitana identifica con il mare.
La paura del mare legittima la separazione tra contadini e pescatori e autorizza l’insorgere inconscio della paura della sete, la dannazione dell’arsura. Contro questo destino, irredimibile, contro l’insidia che viene dal mare, «il cui intento fu quello di aprirsi una strada sotto il paese e magari squassarlo come gli piaceva e pareva», il sogno collettivo fu «di perforare la roccia per afferrare l’acqua», mentre l’immagine popolare si creava «lingue d’acqua» sommerse e polse nascoste come truvature. Il «deserto di pietre» di Vittorini si traduce, per Santiapichi, in penuria d’acqua al punto da fargli stabilire che «il matrimonio dell’acqua straniera col sole dell’isola era per i paesani spersi nel mondo il progresso». E ancora: «II paesani spersi nel mondo ammiravano cattedrali, palazzi e castelli, ma si incantavano alla vista dei fiumi».
Il tema della sete, dell’immigrazione, quindi della povertà, del dolore, si precisa in quello del progresso e del ritorno: «Afferrare il progresso per le corna» è per gli sciclitani di Santiapichi scoprire le sorgenti d’acqua. E il progresso arriva con la scoperta della coltivazione dei primaticci, prima a cielo aperto e poi in serra. Una vera rivoluzione, che concilia contadini e pescatori, perché porta la campagna a mare inventando le «terre sott’acqua», cioè le zone irrigabili in prossimità del mare. Il paese vince la sua eterna dannazione e diventa «pertinenza delle serre». Ma è col bromuro di metile, cioè un mezzo distruttivo, che il paese «afferra l’acqua». Il bromuro si identifica con il progresso e l’eternità si rompe. Il romanzo a questo punto può avere termine.
Il tema del mare appare perciò centrale nel libro di Santiapichi, ne costituisce il motivo conduttore, ma rimane sottotraccia, come non apertamente discusso, anzi non affrontato. In uno sciclitano come Santiapichi «le corna del progresso» risvegliano un atavico timor fati e il mare continua a essere ancora per lui elemento da tenere sott’occhio, per guardare con sospetto. Da sciclitano. Quello che per analoghe ragioni, un altro sciclitano «sperso nel mondo» (e, come nel compimento del cammino di progresso degli sciclitani ritornato a casa), Piero Guccione, ha fatto per decenni dipingendo il mare di Sampieri, anch’egli per afferrarlo o esorcizzarlo.
