
Fa ridere e discutere la polemica su Pasolini se sia da considerare di destra o di sinistra: ridere perché queste categorie sono oggi tramontate ed è un po’ come chiedersi se Trieste sia italiana o jugoslava o la Sicilia araba, dove semmai la questione riguarda non più la nazionalità ma la memoria storica e i retaggi culturali; discutere perché già a suo tempo l’autore di Scritti corsari sfuggiva in modo anguillare a ogni tentativo di comprensione sia nel senso di interpretazione del suo pensiero che in quello di riconducimento a un’area politica. In un’epoca, quella attuale (che ha reciso tutti i legami con ogni forma di ideologia e ha scelto il pragmatismo come strumento di iniziativa politica, sicché un movimento di protesta senza nessun retroterra dottrinale, privo di ogni sistema di idee che non siano intenzioni e programmi, qual è Cinquestelle, fondato da un comico, può un anno formare governi con la Lega e l’anno dopo allearsi con il Pd, o un altro movimento di massa come proprio la Lega, nato in uno spirito revanscista e discriminatorio e finito per pretendere di essere un partito nazionale conservatore, quando semmai apparirebbe progressista per i progetti che ha caldeggiato), parlare di destra e di sinistra può avere senso solo alla Camera e al Senato per via dei posti che occupano i parlamentari nei due emicicli, perché solo dentro il Palazzo perdura una visione di rivolgimenti e dinamiche politico-sociali che è andata via dalla piazza.
Le giornate promosse al Senato e intitolate “Pasolini conservatore” costituiscono pertanto non solo un infingimento e un tradimento della figura dell’intellettuale friulano ma anche un’astrazione dal mondo reale. La prassi di chiamare il passato a fare da testimone è diventata obbligatoria se ci si vuole fare ragione in campo politico. L’uso di tacciare “di destra” quanti militano o votano per partiti o cartelli che semmai sono di centrodestra e che comunque appartengono a un polo di riferimento, a un leader o a un gruppo di leader, ha comportato l’abuso di bollare come “fascisti” i più focosi e facinorosi di essi: con il risultato di svilire di significato il termine al punto da spingere Trump a invitare il neosindaco di New York a rispondere senza riserve al giornalista che voleva sapere da lui se riteneva fascista il presidente. Il neofascismo esiste, ma solo come rigurgito di pochi nostalgici (che tali non possono nemmeno essere chiamati perché nati ben dopo il Ventennio), come aggettivo dunque e non come sostantivo: nei modi in cui in ogni età e in ogni democrazia covano sentimenti di rivolta, pulsioni eversive, logiche in definitiva anarchiche. E come non esiste il fascismo-sostantivo non esiste il comunismo-sostantivo, quello che Berlusconi vedeva replicarsi in ogni suo avversario politico e che l’estemporaneo Sangiuliano ha pensato di consacrare in un braccialetto.
Vedere perciò in Pasolini un conservatore perché stigmatizzò la legge sull’aborto, da lui giudicato un omicidio, e perché fu espulso dal Pci per indegnità morale è come considerare il fascistissimo Pirandello un progressista per avere in teatro e in letteratura rotto con la tradizione portando al modernismo e mettendo in crisi i valori borghesi. Ogni autore, così come ogni persona anche pubblica, è legato al suo tempo ed è nella sua ottica che va visto e lasciato. Altrettanto vale per le teorie filosofiche, le ermeneutiche politiche che vanno sempre storicizzate, soprattutto perché vige un principio di equivalenza: così come è impossibile che una generazione si riconosca in un gusto, una temperie culturale o sociale, perché è necessario aspettare che siano i posteri a darle un nome e una natura (si pensi al “riflusso” degli anni Ottanta, al “boom economico”, ai “baby-boomers”, alla “maggioranza silenziosa”, per stare agli ultimi decenni: etichette venute a eventi conclusi), allo stesso modo è impossibile e indebito appropriarsi di una stagione passata e dei suoi credi per rivitalizzarli e trasporli nella propria. In sostanza, non è possibile sapere in quale clima culturale, sociale e politico si è e di conseguenza si cerca di adattare al presente forme del passato che la storia ha definito e che perciò conosciamo. Come disse giustappunto Pasolini “un’epoca non può cambiare in sé i mali di un’altra” e dunque nemmeno i beni o supposti tali. Solo la cultura e in particolare la letteratura ha il potere di trasmettere i propri geni al futuro, la politica non può perché soffre di contingenza congenita. E’ una moneta che vale nel suo tempo.
Prendiamo il nostro. Da più parti si dice che siamo nel pieno o forse nella curva calante del Postmodernismo e c’è chi parla di neonovecentismo. In pratica non saremmo più impegnati nella rimozione delle “grandi narrazioni” che hanno segnato il modernismo (fondato nell’opera di riponimento delle speranze collettive nell’avvenire, nel fomite di fiducia accordato alla tecnica) e rivolti alla coltivazione di ibridazioni, contaminazioni, per fare i conti con miti come la globalizzazione, la televisione, l’informatica, ma tenderemmo a un ritorno alla realtà più schietta, a temi valoriali in vigore prima della deriva postmoderna, a un novecentismo insomma fatto di impegno sociale. Senonché un altro modello sociale sta intanto invalendo che chiamiamo “Post-verità”: il discredito dato ai fatti nel loro fondamento a favore dell’opinione che niccianamente se ne ha interpretandoli a proprio modo, la versione insomma che prevale sul vero e sul verosimile. Lo strumento più versatile e diffuso della Post-verità è lo storytelling, che ai dati di fatto e di cronaca, alle informazioni reali, preferisce la narrazione per via delle emozioni e delle reazioni intime che è capace di suscitare, narrazione che può dunque essere non rispondente al vero certo ma è certamente molto più persuasiva e fascinosa. La pubblicità non ha adottato lo storytelling come arma d’elezione per convincere circa la bontà di un prodotto e non più per comunicarne l’esistenza e le proprietà?
Se le cose stanno oggi sommicapi così, chi può allora dire se siamo nell’orbita della narrazione o della sua sconfessione, della realtà o della sua astrazione, del vero e non invece del finto se non del falso, come sembra dimostrare l’insorgenza della fakenews come mezzo di comunicazione? Solo i nostri posteri ci daranno un’etichetta e un nome, perché i fatti per diventare storici sono come i dipinti che vanno osservati a distanza: di tempo e non di spazio nel nostro caso.
La figura di “Pasolini conservatore” si presta allora a essere vista con sguardo distorto, perché si tende a forzare un intellettuale dentro una corrente di pensiero al di fuori della sfera di appartenenza storica dell’uno e dell’altra, usando arnesi inappropriati perché sono di un tempo successivo, il nostro, quando il conservatorismo è però un residuato e Pasolini un autore al quale finora non è stato possibile dare uno status. Fu comunista ma eretico, giacché combatté il dogmatismo centralista di Botteghe Oscure, seguendo la stessa strada di Elio Vittorini, anche lui comunista e anche lui non più un iscritto del Pci. Pasolini rivendicava maggiore libertà di pensiero, autonomia rispetto ai dettami di partito, più cultura che politica. Vittorini negli stessi anni Cinquanta auspicava più società e meno sezione e nella sua rivista “Il Politecnico” si orientò verso scelte sgradite alla nomenklatura che lo accusò (la celebre battuta di Togliatti: “Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciati”) di “deviazioni ideologiche”: la stessa accusa mossa a Pasolini, ma forse mascherata per non dargli apertamente del gay.
Pasolini fu in definitiva un intellettuale del suo tempo e pensare di fare oggi quanto non fu neppure pensato quando era in vita, mettergli in tasca una tessera di partito, è un torto che si fa alla memoria, alla storia, alla letteratura e anche al Senato. Si lasci alla ricerca letteraria di stabilire, attraverso la sua opera, cosa è stato. Farlo badando alla sua vita è compito invece della storia. In ogni caso la politica non c’entra niente, anche se si arroga il diritto di entrare in tutto.
