Questa intervista è relativa a più incontri avuti con lo scrittore in occasioni diverse. Può dirsi risalente ai primi cinque anni del nuovo secolo. È apparsa nel mio libro Il carico da undici del 2007 (Barbera Editore).
Su come nascano i suoi libri neppure lei ha le idee chiare se ha detto che forse è stato l’accipe (un gioco che consiste nell’evitare di dire parole in dialetto: chi ne pronuncia una prende l’accipe e fa penitenza) a portarla a scrivere un personalissimo italiano dilettato. Che ha molte analogie con la parlata siculo-americana, fatta di termini desueti e di proposizioni miste. Avendo amato e frequentato Jerre Mangione, non può darsi che certe suggestioni le siano venute da lui?
Può darsi. Ma devo dire che onestamente un certo interesse per il dialetto l’ho sempre avuto. Io avevo una nonna, Elvira, che mi leggeva non solo Alice nel paese delle meraviglie ma mi recitava anche a memoria – io appena un bambino – le poesie dell’abate Meli. E ricordo che mi piaceva molto sentire il suono del dialetto, per cui stavo lunghe ore a sentirla. A casa mia del resto si parlava esclusivamente il dialetto e solo dopo molto tempo si è cominciato a parlare anche italiano. Sa che cosa mi faceva scialare? Sotto casa mia c’era una volta – sto parlando di quando potevo avere sei anni – una sorta di magazzino. Ora c’è un negozio di tessuti. Là dentro facevano l’opera dei pupi con tanto di cartellone fuori con le scene. Era un teatrino vero e proprio, con le panche e tutto quanto. Mi piaceva molto la storpiatura che facevano dell’italiano, cioè il loro tentativo di parlare in italiano. Cercano uno. «Andiamo a lo castello così lo potiamo trovare». Non era una presa in giro di quei poveracci che si sforzavano di trovare la parola italiana, ma mi divertiva quello che veniva fuori da quei tentativi. Un giorno, diventato più grandicello, mi capitò tra le mani un libro straordinario di poesie. Non so dove sia andato a finire. Era un libro stampato a New York negli anni Trenta e conteneva poesie d’amore scritte in quella lingua strepitosa che era l’italo-siculo-americano. Versi come «Tengo uno storo abascio città» mi rivelavano una lingua stupenda. Poi, tempo ancora dopo, lessi un romanzo di cui non ricordo l’autore, Stella o La Stella, che fu pubblicato da Garzanti: una storia deliziosa scritta in italiano ma con vocaboli della Bassa Padana. Fu allora che ebbi la prima intuizione che si poteva scrivere in quel modo. Io naturalmente col mio dialetto. Mangione? Mangione scriveva in un bellissimo americano e quando parlava usava quella lingua siciliana desueta che nemmeno io riprendo più.
Non riprende l’antico idioletto ma rimane un giocoliere del dialetto.
Io ci ho giocato eccome con le parole. Da piccolo passavo gran parte dell’anno in campagna, che poi era a due chilometri dal paese. E lì c’era un mezzadro, Minicu, col quale trascorrevo giornate intere ad ascoltare. Minicu mi raccontava le storie dei contadini e io lo pagavo con le sigarette Milit di mio padre. Con una di queste storie ho terminato per esempio l’intervento che ho fatto per la laurea honoris causa della Iulm: l’uomo con due teste che parlano due lingue diverse che non gli fanno capire niente trasformandolo in un mostro, ma che torna normale quando parlano la stessa lingua.
Insomma lei ha rinverdito il mestiere dei demopsicologi ottocenteschi che andavano alla ricerca di tradizioni popolari, leggende e «parità». Del resto anche Verga e Pirandello chiedevano da fuori ai loro corrispondenti in Sicilia di spedire loro proverbi e modi di dire siciliani.
Il mio corrispondente si chiamava Peppe Fiorentino, al quale ogni tanto facevo leggere i manoscritti. Lo chiamavo e gli dicevo: «Peppi’, quando siamo in questa situazione come si dice?».
Quando lei fa leggere a Sciascia La strage dimenticata lui l’avverte che il dialetto non si usa in un saggio come in un romanzo e lei alleggerisce la parte saggistica. Anni dopo terrà ben conto della raccomandazione di Sciascia scrivendo Biografia del figlio cambiato.
In Biografia del figlio cambiato mi pare evidente che la presenza del dialetto via via viene meno con l’età di Pirandello fino ad arrivare a un italiano permanente. L’idea era infatti di mitizzare attraverso il dialetto l’infanzia di Pirandello e dunque l’uso che ne faccio è estremamente strumentale. Quanto alla raccomandazione di Sciascia, alleggerii molto il testo di dialetto, certo. La prima versione di La strage dimenticata, che dovrebbe trovarsi ancora alla Sellerio, si intitolava “Digressioni per una doppia strage”. Poi prese un titolo più narrativo. Vede, il mio problema si poneva nei modi di un aut aut: o scrivevo in quel modo o niente.
Sciascia in realtà arrivava ad ammettere il «dialetto borghese», quell’ibrido, diceva, di lingua e dialetto che con qualche arrotondamento diventa lingua.
È la stessa opinione che aveva Pirandello. Ma attenzione. Quando scrive, in quell’articolo intitolato “Il teatro siciliano?”, col punto interrogativo, che solo il linguaggio borghese può essere in dialetto in quanto oggetto del dialogo stesso, io poi dico sissignore, ma lui poi scrive Liolà.
Pirandello diceva in un saggio su “La vita nuova” che non esiste una lingua nazionale e che ovunque si parla il provinciale. E semmai la lingua italiana esiste solo nell’opera scritta.
Nell’opera scritta ma anche nelle scuole. In questa polemica furibonda lui arriva a dire che è un errore pacchiano sostenere che Dante si è inventato l’italiano.
Sciascia ammette che Liolà riesce meglio in dialetto che in italiano, ma è perché conosciamo la versione in lingua che apprezziamo quella in dialetto. Insomma sia Sciascia che Pirandello non erano entusiasti del dialetto. E sia l’uno che l’altro sono suoi conterranei e suoi padri putativi: padri che l’hanno però contrariata.
È vero, ma torno a ripetere che ci sono spazi di necessità nei quali non posso muovermi per mia natura. Sono anche disposto ad alleggerire un saggio, ma nei romanzi storici non ce la faccio. Diverso è il caso dei libri di Montalbano che non hanno, se ci fa attenzione, la stessa carica dialettale dei romanzi storici – anche perché mi sono messo dalla parte dei lettori di romanzi gialli che devono soprattutto fare i conti con l’enigma della scrittura.
Tutto chiaro. Resta il fatto che lei è il solo a usare al massimo il dialetto. D’Arrigo si è fermato molto prima. Ci sarà qualche scaturigine particolare.
Vediamo. In realtà io venivo da un’esperienza che mi dava una certa fiducia. Ho avuto ragione a insistere e fidarmi della mia intuizione. È una cosa difficile a spiegarsi a parole perché si tratta di un’intuizione appunto. Ho cominciato a scrivere in italiano, veda i miei racconti e le mie poesie giovanili. A un certo momento, via via che vedevo aprirsi una certa strada – parlo di esperimenti di scrittura – mi sono trovato supportato dall’esperienza teatrale. Successe che nel 1950, a gennaio, venne a Roma una compagnia israeliana, «Ohel», che significa la tenda. Recitava non in yiddish ma in israeliano e fece tre testi il primo dei quali era Sotto le mura di Gerusalemme. Non si capiva nulla. Ma una cosa mi affascinò: il suono delle parole. Ascoltando lentamente capivi qualcosa. Notai nel testo degli accorgimenti per cui chiesi al regista come mai la recitazione era costruita in modo che l’ultima sillaba di una frase pronunciata da un attore fosse musicalmente legata alla prima dell’attore successivo. Mi disse: «Perché è liturgico. Stiamo ricostruendo questa lingua da una liturgia». Ebbi un’illuminazione: guarda! Volendo si può! Gliene racconto un’altra. Sono stato presidente di giuria al Cairo dove c’erano sessantasei Paesi e decine di lingue. Io e il critico de “la Repubblica” assistemmo a una rappresentazione teatrale e dopo un quarto d’ora non avevamo capito ancora niente. Finché all’improvviso capimmo. Era Amleto. Come lo capimmo non lo so, ma lo capimmo. E tenga presente che Ofelia aveva la barba.
Su questo gioco di lingue Pirandello cucì le tre espressioni de Il ciclope, ricorda?
Pensò un Ciclope che parlava tre lingue. Una è il linguaggio di Minicu, del massaro. Prenda la parola «gramusceddru»: se uno non è un contadino non la conosce. È il vitellino appena nato, che trema sulle gambe e casca. L’altra lingua del Ciclope è quella di Catarella ed è parlata da Ulisse che usò un linguaggio più ricercato. La terza è la lingua del mafioso, tutta per cenni, accenni e sottintesi.
E di queste nuances lei ha tenuto fortemente conto, dunque.
Soprattutto nel barare, cioè nel portare una parlata da un livello a un altro. Sa che ci si può commuovere su una parola persa e ritrovata? È capitato a me per Pirandello. Mia nonna Elvira mi chiamava «Pizzichiturro», termine adoperato solo da lei. «Chi nipoti pizzichiturro chi aiu». Quando stavo scrivendo Biografia del figlio cambiato mi capitò di trovare sotto casa in cartoleria un libro con una cinquantina di lettere inedite di Pirandello alla sorella. Una di queste cominciava così: «Cara sorella pizzichiturra». E a mia mi spuntarono i lacrimi. La parola si era persa nell’età di Pirandello e di mia nonna ed è morta lì.
Vittorini non scrisse una sola parola in dialetto; Sciascia usava il dialetto solo per gli epiteti, le massime e le citazioni; Brancati si preoccupava di tradurre subito un’espressione siciliana. Lei lascia il lettore solo a sbrogliarsela con termini che, come «gana» o «tambasiare», non trova nemmeno nel vocabolario siciliano. È stata una prova di presunzione e di orgoglio la sua?
Di disperata presunzione diciamo. Quando per dieci anni nessuno mi ha pubblicato Il corso delle cose ero dispiaciuto ma mi rendevo conto che aveva ragione l’editore a dire «Ma come scrive questo?» Epperò sapevo anche che quella scrittura era un po’ un mio limite e un po’ la mia fortuna, ma non avevo una via di mezzo.
Ancora Pirandello diceva che il dialetto di Girgenti è uno strumento perfetto di espressione letteraria. Lei è d’accordo?
È quello che più di tutti si avvicina all’italiano. Condivido pienamente la sua opinione e infatti uso l’agrigentino.
Che non è in realtà il siciliano. È una particolarità.
È vero, tanto che Pirandello quando scriveva per il teatro si serviva del siciliano e non del girgentano perché sapeva che Musco, Rosina, Anselmi e gli altri attori non erano agrigentini: novantanove per cento catanesi e un per cento palermitani. E quando mi vengono a raccontare della zuffa con Musco io dico nossignore: non ci credo che sia nata per le gag di Musco e le libertà che si prendeva rispetto al copione. Uno come Pirandello vuole che non capisse? Non gli piacque la deformazione della parlata in catanese rispetto a quella che aveva scritto in agrigentino. Ne abbiamo parlato.
Perché la parlata agrigentina è la più vicina a quella italiana?
Per esempio: figghiu non esiste, in agrigentino si dice figliu. Certi suoni e sviluppi di suoni (per usare il titolo della tesi di laurea di Pirandello) sono italiani.
Lei usa la parlata agrigentina per rendersi allora più comprensibile?
Può darsi, ma sono certo che se avessi scritto in catanese non sarebbe cambiato niente.
Sciascia diceva che in Liolà Pirandello non apriva ma chiudeva il dialetto. E spiegava perché: perché scritto in stato di ebrezza, in pochi giorni, calandosi interamente in quella che chiamò commedia-villeggiatura, commedia-campagna. Ma lei è autore di lunga stesura.
Bisogna vedere. Io posso scrivere un racconto di Montalbano riprendendolo dopo sei giorni d’interruzione, ma Il re di Girgenti non l’ho mai potuto scrivere se non rileggendo tutto quello che avevo scritto prima.
Aveva ragione Pirandello a dire che il dialetto è più ristretto rispetto alla lingua?
Diceva che aveva meno possibilità di comunicazione perché incomprensibile fuori dalla regione in cui si parla.
Lei lo ha dunque sconfessato.
Non io. Prima di me ci ha pensato Musco.
Ma in teatro. È diverso: sulla scena la mimica sostituisce la parola e la rende comprensibile.
Fino a un certo punto. Pensi a Eduardo: c’è la mimica ma c’è anche la parola. «Ha da passà ‘a ‘nuttata» Chi non lo capisce?
Se quello di Pirandello era, come ha detto lei, un «dialetto ecumenico», il suo può essere definito «dialetto borghese» secondo una specificazione di Pirandello?
Fino a un certo punto ho adoperato un dialetto borghese, è vero. Ma ne Il re di Girgenti mi sono servito di un dialetto misto, borghese e contadino. Mi dicevano: «Ma guardassi che cataminare non lo diciamo». «Sì – rispondevo – ma là sopra, nel centro storico di Agrigento, lo dicono».
L’oralità, ha detto, è per lei fondamentale. Oralità è soprattutto estemporaneità ma anche studio, copione, ciò che nel romanzo è stesura. Lei, che è un autore di cento stesure, in che senso ritiene fondamentale l’oralità?
È una questione di tecnica. Io scrivo una pagina e naturalmente poi la revisiono. C’è dunque un primo grado della scrittura: cambio una frase, la esprimo meglio, e vado avanti così per diverso tempo. Quando penso di avere raggiunto quello che volevo dire scatta in me un secondo piano che è la lettura ad alta voce del testo. Leggendo, prendo un certo ritmo, do un certo colore, tanto che potrei raccontarla quella pagina come se l’avessi inventata in quel momento. L’inceppamento nel racconto orale è pregiudizievole, sicché riscrivo tutto.
Una volta lei ha detto che le piace leggere i documenti storici ma poi si lascia prendere dalla lettura e ci trova presenze gogoliane al punto da farsi vincere dalla «voglia di sgorbio».
Lei mi dirà che è prova di scarsa fiducia nella storia. Può darsi. Per uno che come me ha certe convinzioni politiche non è segno di felicità dire una cosa simile. Ma in Il birraio di Preston c’è l’ultimo capitolo che è la storia come la si legge.
Già, solo che è tutta falsa o perlomeno ci sono forti sospetti.
La verità sa qual è? Che io scrivere saggi-verità non lo so fare.
Anche Biografia del figlio cambiato è un racconto che parte come saggio. E poi c’è La bolla di componenda: lei vuole fare un saggio, ma dopo decide di fare un esempio e finisce per scrivere un romanzo.
Sì, lo ammetto. Non sono mai riuscito a stare nei termini del saggio. Dopo un po’ mi sento stretto.
La sperimentazione resta dunque un suo banco di prova irrinunciabile?
Assolutamente sì. Che cosa ho fatto quando ho scritto La concessione del telefono? Non ho fatto che evitare il romanzo tradizionale scrivendo qualcosa che attiene più che altro al teatro, senza passaggi temporali e senza descrizioni. Quando ho scritto La scomparsa di Patò come autore mi sono completamente chiamato fuori dalla narrazione, per quanto ciò sia possibile. Come dire, cercavo di portare ancora più a fondo un tipo di ricerca strutturale all’interno del romanzo.
In realtà, a stare ai risultati utili, lei è andato ben oltre il Gruppo 63.
Piano, piano. Io ai lettori ci tengo e non faccio niente che non capiscano. Il massimo mio azzardo – e sapevo che avrebbe avuto reazioni negative – è stato La presa di Macallè, ma riguardava i contenuti e non il linguaggio.
Questa vocazione all’azzardo non le viene forse da Pirandello che innovò il teatro con la trilogia? E quella trilogia fu una proposta di teatro-verità o un gioco di astrazione? Alla stessa maniera, la sua ricerca tende al romanzo-verità o ne prefigura la rottura?
Allora. Nel momento in cui irrompono i sei personaggi che nella didascalia entrano in scena da un luogo terzo che non è né quello degli attori né quello del pubblico, abbiamo una finzione di irruzione della verità. La ricerca della massima verità è inevitabilmente la ricerca della massima astrazione, a mio avviso. Ma non scriverei mai una cosa che non avesse un relativo consenso. È il caso dell’autore teatrale: vuole che il pubblico capisca quello che sta dicendo, che dissenta o approvi non importa perché conta per lui stabilire la comunicazione. Per lo scrittore è la stessa cosa.
Ma dopo la tanta esperienza teatrale e televisiva, lei ha maturato una capacità di comunicazione che le permette di rivolgersi a un pubblico dal target diversissimo. Come fa a cambiare così facilmente abito?
Non so spiegarmelo. Forse la lunga militanza teatrale mi ha dato la misura di ciò che faccio. Quindi ne consegue che se lavoro a una realizzazione televisiva so che sarebbe un errore di comunicazione mettermi a fare sperimentalismi troppo azzardati. Tanto è vero che quando mi trovo tra le mani una sceneggiatura di Montalbano intervengo nel dialogo: primo, per evitare che uno degli attori non siciliani parli scorrettamente il siciliano; secondo, per rendere appunto più comprensibile quanto viene detto. Il senso della destinazione di ciò che scrivi ne comporta anche un adeguamento.
Con un suo amico d’infanzia di nome Gaglio lei cominciò con il teatro. Eravate ragazzini. Lei aveva quindici, sedici anni.
Anche di meno.
Da dove nasceva tanto interesse culturale in un posto come Porto Empedocle?
Intanto mi veniva dalla lettura delle commedie. C’era un mio zio, Alfredo Capizzi, che era un grandissimo lettore. Nella sua biblioteca trovai per esempio tutti i numeri de “Il dramma”, la rivista di Lucio Ridenti, e io leggevo le commedie nella forma strana e un po’ noiosa che è quella teatrale.
Lei suggeriva ai compagni di infanzia di rappresentare Vittorio Calvino.
Lo consigliavo perché era di un’avanguardia soft. La torre sul pollaio per esempio… Erano cose che allora sembravano grandi novità.
Novità che rappresentavate sul serio al teatro Mezzano. Dietro il quale c’era una casa chiusa molto frequentata dalla combriccola.
Era la pensione Eva, di cui ho parlato nell’omonimo romanzo e in Il gioco della mosca.
Libro questo dove tutto è preso dalla realtà empedoclina.
Un almanacco di cose vere. Un po’ più circoscritto di Occhio di capra, più locale, tra il familiare e il rionale.
Certo, rileva una figura di Camilleri alquanto epicureo, buongustaio e goliardico.
Era una stagione leggendaria. Eravamo dei giovanissimi vitelloni. Si facevano delle scommesse improbabili. Io e Ciccio Burgio non andavamo a letto se prima tutto il paese non era già a dormire.
E proprio Burgio fu vittima di un suo scherzo sopraffino.
Lui era un purista della lingua. Gli dissi una parola, «ilbaristocairo», tutta unità, che non comprese. Si chiuse allora in casa nel tentativo di capirla e uscì dopo tre giorni stravolto non essendo riuscito a decifrare quello che avevo detto. Semplicemente «il barista al Cairo».
E giù bevute.
Ci ubriacavamo come pazzi.
Qual è il suo rapporto con Porto Empedocle?
È un rapporto terribile perché si finisce col passare degli anni per essere dei superstiti involontari. Gli altri se ne vanno e le giovani generazioni non le conosco. Ma sono così, attaccato alla mia terra: vado giù per farmi solo una passeggiata al porto, come fa Montalbano, per sentire i vecchi odori che ancora rimangono, nonostante il kerosene. Ci sono ancora zone del porto che sanno di acqua stagnante, di corda bagnata, di nafta, di pescherecci. Mi appare tutto meraviglioso.
È vero che da studente universitario rovesciò un tavolo addosso a un professore?
È vero. Io non andavo a seguire le lezioni a Palermo, perché dopotutto a Lettere non era necessario frequentare. Studiavo per i fatti miei. Preparai una tesina sulle sacre rappresentazioni di Feo Belcari e il professore, che peraltro sostituiva il titolare, cominciò col dire: «Lei non sa che c’è stata una sacra rappresentazione di Sant’Olivia con la regia di Jacques Copeau». E così di questo passo, finché protestai: «Ma perché lei mi fa ogni domanda supponendo che io non sappia rispondere?» Allora lui si irritò moltissimo e rispose: «Perché non ho mai avuto il piacere di vederla alle mie lezioni». Io che allora non ero certo un tipo facile replicai: «Ma lei pensa che io venga da Agrigento a Palermo per assistere alle sue lezioni? Ci sono cose migliori da fare». Lui mi gridò: «Le do diciotto!» e finì a schifiu.
Un episodio rimasto isolato immagino.
Senza dubbio, però mi levò molto il gusto dello studio.
Perché poi lasciò l’università.
Arrivai a dare quasi tutti gli esami sotto la laurea. Ma c’era un’altra ragione che mi fece smettere, oltre al fatto che non volevo fare il professore, l’unica strada possibile. Succedeva che tutte le maggiori riviste letterarie italiane e i quotidiani nazionali mi pubblicavano. Io stavo a Porto Empedocle e pubblicavo poesie su “Mercurio” di Alba De Cespedes. Le mandavo e quella me le stampava. Ho pubblicato su “Inventario”, diretto da Eliot, dove in un numero apparve addirittura, con una mia poesia, un inedito di Dylan Thomas, allora vivente. Pubblicavo racconti di terza pagina tanto su “L’Ora” di Palermo quanto su “L’Italia socialista” di Roma. Poi capitò che Ungaretti mi pubblicò le poesie nello “Specchio” di Mondadori (che allora era la più prestigiosa collana di poeti italiani) in un’“Antologia dei poeti del Saint Vincent”. E poi venne il premio “Libera stampa” a Lugano, con una giuria terribile: Gianfranco Contini, Giansiro Ferrata e via di questo passo. Nella rosa dei finalisti entrammo in dieci, tutti ventenni. I nomi vanno da Camilleri, che scompare per ricomparire molto più tardi, a Zanzotto, ma in mezzo ci sono Pasolini, Angelo Romanò, Padre Davide Maria Turoldo, Danilo Dolci.
Altro che cominciare con Il corso delle cose. Lei ha un lungo background.
Il corso delle cose era una sorta di heri dicebamus, tanto è vero che nel momento in cui ho deciso di scrivere ho ripreso il discorso interrotto con la pubblicazione di venticinque poesie da Vallecchi nei Nuovi poeti. E pur facendo teatro, quando ho ripreso non ho scritto per il teatro, come sarebbe stato logico pensare, ma sono tornato all’amore per la letteratura.
Sicché non si capisce più se il suo primo grande amore sia stato il teatro o la letteratura.
La poesia. Ho avuto la fortuna di avere buoni insegnanti al ginnasio. Per esempio la Lia Giudice che mi fece conoscere Montale, Ungaretti e altri.
Ha soprattutto avuto la fortuna di avere genitori molto liberali che le hanno permesso di seguire le sue aspirazioni.
Immagini in quel periodo un figlio unico che decide di andare via da casa aiutato dai suoi per finire «tra i saltimbanchi», come disse un mio lontano parente con disprezzo. Ma i miei se ne fregavano delle dicerie.
Lei è vissuto in un ambiente familiare stimolante e caldo. Fu per esempio incoraggiato dallo zio Massimo a continuare a scrivere.
Già. Quando vinsi il premio Firenze per il teatro fu lui a farmi coraggio perché non avevamo i soldi per il viaggio. Mi disse: «Non ti preoccupare, aspetta che mi vendo i ceci». E quando pubblicai da Lalli Il corso delle cose mi disse di lasciare perdere il teatro e di mettermi a scrivere libri.
Il Consiglio d’Egitto, il libro che Montalbano ha letto una ventina di volte, dev’essere, per la trama intrigante, per l’ambientazione storica, il suo livre de chevet. È vero?
È verissimo. Ed è il libro di Sciascia che amo di più.
Vero anche che quando comincia a scrivere un libro non può fare a meno di leggere prima qualche pagina di Sciascia?
Sì, ho bisogno di una carica. Difficile che io vada a caricarmi con autori che magari leggo più di Sciascia. Mi carico più su una tensione di dialettica che non consolatoria. Come in un buon matrimonio gli sposi devono essere diversi per amarsi davvero.
Questo vuol dire che lei è poco sciasciano?
Non ho niente della lucidità razionale di Leonardo. Semmai sono più cardarelliano che sciasciano, un cinico che ha fede in quel che fa, distante rispetto a Sciascia, del quale comunque condivido il novanta per cento delle posizioni morali e civili: rimango sempre ammirato da questa sua lingua affilata come un bisturi.
Pirandello diceva che i siciliani sono nati tristi e che nutrono un sentimento tragico della vita. È la stessa visione di Unamuno, il quale è con Pirandello un padre nobile di Sciascia. Lei invece sembra alimentare un sentimento ironico della vita. Un motivo che la distingue da entrambi.
Da Pirandello assai più che da Sciascia. Le situazioni di ironia in Pirandello sono mascherate molto di più. Pensi a Bobbio, il notaio afflitto dal mal di denti: impazzisce dal dolore ed è un miscredente incallito, ma quando passa davanti a un’icona con la Madonnina gli viene di recitare un’«Ave Maria» e il dolore gli passa gettandolo in una crisi spaventosa. Poi il dolore gli torna, prega ma stavolta non guarisce, sicché va dal dentista per farsi levare tutti i denti dicendo che non gli importa più se il miracolo c’è stato o no. Come vede, l’ironia è sotterranea, appena suggerita. Pirandello lascia al lettore di tirare le conseguenze. Sciascia no: Sciascia affonda con forza il suo laser.
Mentre la sua ironia di che pasta è?
È esplicita. Spesso e volentieri degenera nel grottesco e in certi momenti anche nella farsa. Voglio dire, è più un materiale grezzo di uso comune.
Si può dire martogliana?
Sì, ma senza la grevità del buon Martoglio. Però c’è questa sua vena in me. Ricordo per esempio l’ironia presente in una commedia che ho messo in scena, ’U contra. È l’ironia insita nella forza stessa del dialetto, nell’uso delle parole da cui Pirandello era ben lontano e tutt’altro che orgoglioso di praticare.
La sua esperienza di «siciliano di mare aperto» la distanzia da Sciascia che non vedeva che la Sicilia. Lei invece ha cercato di superare questo giogo inseguendo un orizzonte sempre più vasto. A volte sembra che le dia fastidio essere chiamato siciliano.
Agisce in me una forza che mi spinge a uscire spesso e volentieri da una certa retorica che riguarda la problematica dei siciliani.
Parla di sicilianismo?
Sì. E non mi va. In fondo cos’è la mia Vigàta? Un’astrazione. Nemmeno nella Chicago del proibizionismo ci poteva essere una tale quantità di morti ammazzati come a Vigàta. Che è una metafora dei nostri luoghi, ma anche dell’Italia e della vita di oggi.
Dovrebbe dunque sentirsi più confrére di Vittorini, che scrisse della Sicilia ma avrebbe potuto riferirsi alla Persia o al Venezuela.
Sicuramente è così. Ricordo che da direttore artistico di un’“Estate catanese” misi in cartellone le sue Le città del mondo che però non potei fare per motivi logistici di messinscena e optai poi per Don Giovanni in Sicilia.
So che quando non scrive legge. E legge, ha detto, Sciascia. Ma c’è anche Pasolini: due uomini contro.
No, gli altri sono stati uomini contro. Loro sono stati come dioscuri.
Chi preferisce?
Devo dire che condivido assai di più le idee di Sciascia che non quelle di Pasolini. Però, a leggere Pasolini, anche la divergenza d’opinione è stimolante. Di una mediocrità non mi importerebbe nulla. La lettura pasoliniana è tale da suscitare nel lettore un’operazione critica rispetto a quello che ha scritto. Ce ne sono così pochi scrittori che provocano questo effetto.
Ma lei preferisce leggere o scrivere?
Eh, ma non si può scrivere sempre. È più facile leggere.
Però lei preferisce scrivere.
Sì, ma anche chi preferisce stare a letto tutto il giorno con una donna finisce per stancarsi.
Lei disse una volta che alzandosi la mattina si ripete: «È ancora presto per alzarmi e lavorare», per poi aggiungere subito dopo «Ma perché non devo alzarmi e lavorare anche se è ancora presto?». Mantiene sempre questa regola di disciplina?
Sempre. Anche quando finisce che mi alzo e non scrivo ma mi metto a stirare pantaloni e tambasiare.
Con l’età i suoi ritmi sono andati rallentando?
No, la forza fisica è rimasta la stessa. Quella che s’è debilitata è la resistenza dei miei occhi. Se prima potevo stare quattro cinque ore al computer oggi non resisto più di due ore. E ci rimango male, perché vorrei continuare, ma devo fermarmi per forza. C’è anche un’altra cosa: che mentre prima riuscivo a fare due tre cose contemporaneamente oggi non posso farne che una alla volta.
Lei ha detto che le cose nella sua vita sono arrivate sempre tardi. Ritiene di non aver avuto una bella vita forse?
Ho avuto una vita fortunata, altroché. Perché a conti fatti ho sempre fatto quello che mi è piaciuto. Non solo: ho fatto quello che mi piaceva fare tanto da poter mettere su famiglia. Alzarsi la mattina e sapere che il lavoro della giornata sarà quello che ti piace lo ritengo una fortuna enorme.
Ha avuto due vite, la prima finisce quando nell’84 lascia la Rai, la seconda quella dell’attività letteraria. Qual è stata la più bella?
La seconda. Perché cosa facevo? Anche se facevo un lavoro gratificante com’è quello della regia e della produzione, finivo sempre col proporre cose altrui. In realtà il regista è un interprete, un mediatore. Invece la scrittura è un’attività sorgiva, è così personale.
Lei è passato da un tipo di attività collettiva a una per antinomia solitaria. Se potesse cambiare la sua vita farebbe in modo che quella di regista venisse dopo quella di scrittore?
Non si può fare il regista da anziani, troppo faticoso.
Mica scrivere è niente.
Faticoso pure, ma il lavoro non dipende dalla comunità. Se hai una prova dalle 14 alle 16 e non hai voglia non puoi dirlo, e se non hai idee devi fartele venire. Quando si scrive invece, se alle 16 non hai idee ti alzi e ti fai una passeggiata.
Altrettanto prolifici come lei ricordo Balzac, Dumas, Simenon… insomma si contano.
Tenga presente che sono un pensionato, di quelli che vanno ai giardini con i nipotini, con i quali per la verità perderei ore. Invece sono un pensionato che scrive. E avendo una grossa quantità di tempo a disposizione, sarei capace di stare un giorno intero a scrivere. Simenon scriveva ottanta cartelle al giorno, io non arrivo a un decimo, otto cartelle al massimo, ma potrei fare le due o le tre di notte stando a revisionarle.
Non cambierebbe dunque nulla della sua vita?
Niente, semmai chiederei una maggiore attenzione su quanto ho fatto a teatro. Soltanto due se ne sono occupati: Giorgio Prosperi e Nicola Chiaromonte finché sono vissuti.
In La testa ci fa dire si definisce, secondo una distinzione proposta da Nisticò, «un siciliano di mare aperto» anziché «un siciliano di scoglio», ma con il rimpianto di non essere stato il contrario: un siciliano che torna piuttosto che un siciliano che la Sicilia se la porta con sé.
È così. Ma le circostanze mi hanno fatto accettare la condizione di capitano di lungo corso, mentre io molto volentieri sarei uscito col caicco a pescare il pomeriggio davanti alla spiaggia di casa mia.
Se invece di andare via fosse rimasto in Sicilia, i suoi romanzi sarebbero stati meno siciliani perché anche il grammelot si modifica e quindi il suo vocabolario arcaico si sarebbe aggiornato a contatto quotidiano con l’argot. Oppure no?
Con i se non si discute, però credo che ci sarebbe stata assai poca differenza. Non è una certezza la mia, ma un’ipotesi piuttosto praticabile: tutto credo che sarebbe rimasto uguale, come forma di scrittura e di ricerca.
Ha fatto caso che nei suoi libri nessuno va via dalla Sicilia? Semmai in Sicilia vengono. Nei romanzi storici sono ufficiali di carabinieri, ispettori di polizia, prefetti e questori che vengono da fuori. Nella serie di Montalbano, Livia è di fuori e il commissario si ostina a rimanere in Sicilia. Non è un suo transfert, una proiezione quasi in atto di resipiscenza?
Può darsi, ma la verità per cui Montalbano non va via dalla Sicilia è il timore, l’ho detto altre volte, di non avere la stessa conoscenza dei codici che presume di possedere come siciliano, sicché teme che fuori dal suo campo di azione, trasferito altrove, possa non avere la stessa lucidità e la stessa capacità di capire che invece presume, dico presume, di avere stando a Vigàta.
Un problema che lei non s’è posto, o che comunque ha risolto.
In qualche modo l’ho risolto. Io non ho problemi di adattamento o rimpianti, assolutamente.
E quindi non si sente un Anteo che soltanto stando in Sicilia trova forza a contatto con la propria terra. Lei sta bene ovunque?
Sto bene ovunque, però naturalmente c’è sempre un Dna che mi porto appresso. Una volta, la prima notte che giunsi al Cairo, mi misi a girare per le strade di quella città fascinosa e tornai in albergo alle quattro del mattino. Mia moglie mi chiese «Come va?» e io dissi «Sono a casa mia, tranquillo». Ho provato questo straordinario senso anche in città assai più distanti. Mi trovo benissimo ovunque.
Però una dichiarazione che le fece Sciascia quando si trovava a Parigi e le disse «Sugnu iettato ca», come dire che chi è fuori casa è come abbandonato, l’ha colpita molto.
Già, ma Sciascia a momenti prendeva poi casa a Parigi. Il problema è salpare. Una volta salpato, uno può arrivare dappertutto. Vede, quando sono uscito io, non ero nella condizione dell’esiliato o di chi è costretto a fuggire. Era proprio una necessità mia. Ma non so se oggi, se avessi ventidue anni, me ne andrei dalla Sicilia. Direi quasi sicuramente di no.
Lei consiglierebbe quindi a un ragazzo siciliano di non partire?
Oggi la Sicilia, secondo me, è un campo d’azione meraviglioso in tutti i sensi. Quando sono andato via io, nel ’49, si stava veramente male. Uno che voleva fare ciò che volevo fare io, teatro, letteratura, non trovava niente. Bisognava prendere il treno e arrivare a Palermo da Flaccovio per trovare un libro, si figuri. Era una situazione di isolamento piuttosto dura.
Lasciare la Sicilia per gli scrittori è stato un sogno più che un progetto. Un sogno che lei ha realizzato.
Credo che il proverbio «Cu nesci arrinesci» non se l’è inventato mio nonno o il suo. Allora le condizioni erano sfavorevoli e quindi si sognava di potersi realizzare dove c’era la possibilità.
La sua può essere ritenuta una sindrome di tipo catulliano: di chi non può vivere né con la Sicilia né senza?
A me capita, capita eccome. Me ne sto qui a Roma e scrivo di cose di Sicilia. E costantemente il mio pensiero è laggiù. Ma dopo quindici giorni che sto in Sicilia, la voglia di scapparmene diventa incontenibile.
Beh, è rimasto allora della stessa idea che aveva a vent’anni.
Feci una scommessa con me stesso e con un amico, che purtroppo è morto. Dissi «Io me ne vado da qui». Eravamo seduti davanti al municipio, dove c’era il famoso caffè Castiglione. «Me ne vado – dissi – e voglio dimenticarmi il numero delle colonne che sorreggono la balconata del municipio. Tornerò solo per ricordarmele e contarle».
E le ha dimenticate?
Sì, tanto che, tornato tre anni dopo, non sapevo più se erano cinque o sette.
Ricorda adesso quante sono?
Sa che non me lo ricordo.
Anche lei, come un Verga o un Pirandello, sente il bisogno di tornare per fare la spesa, per rimpinguare il suo vocabolario di nuovi modi di dire?
Questo sempre. Però è molto più difficile fare la spesa in quanto i fogli di questo vocabolario si vanno perdendo e alterando sostanzialmente.
Lei sta comunque facendo un bel lavoro di conservazione.
Ma a modo mio. Non sono un filologo.
Musco, racconta Brancati, amava incontrare siciliani all’estero e fraternizzare con loro. Ma si divertiva pure a ricoprire di insulti in siciliano stranieri che non potevano comprenderlo. A lei piacerebbe fare qualche volta una cosa del genere?
Ma neanche lontanissimamente. Prima di tutto mi è difficile insultare qualcuno sia in dialetto che in italiano. Si figuri insultare un poveraccio che non capisce quello che dico. Nel novantanove per cento dei casi potrebbero fare lo stesso con me e non sarebbe gradevole.
Ma se lei incontrasse a Tokyo un siciliano gli parlerebbe in dialetto o in italiano?
In dialetto. M’è capitato ad Amburgo di sentirmi chiamare «duttureddu Camilleri». Era uno del mio paese: ci siamo abbracciati come se avessimo passato la vita insieme mentre non ci conoscevamo. Lui mi aveva visto in televisione.
Cosa si prova?
Un grande senso di affetto per l’altro. Ma anche il riconoscimento di una appartenenza.
Secondo lei esiste una diaspora siciliana?
È un’idea ricevuta. Noi andiamo via per lavoro come vanno via per lavoro dal Maghreb.
Si sente nelle vesti di un emigrato?
Primo: sono partito dalla Sicilia con l’idea di tornare un giorno o l’altro. Secondo: le mie condizioni di partenza non erano minimamente paragonabili a quelle di un poveraccio del terzo mondo. Io me ne sono andato con una borsa di studio, sicché la mia condizione psicologica era di chi va da Roma negli Stati Uniti per un corso di perfezionamento, quindi di uno che non è che si senta in esilio.
Le ha mai pesato la patente di siciliano o piuttosto l’ha favorita?
Certe volte è pesata e a volte mi ha condizionato. Nei primi anni mi sono accorto per esempio che continuavo a ragionare dentro di me in siciliano e quindi quando parlavo con gli altri in italiano in realtà traducevo rapidamente: e succedeva che la traduzione mi lasciava un non ampio margine in ciò che dovevo dire, come fosse una lingua straniera, che si conosce non perfettamente per cui alcune cose si finisce per dirle basicamente. Così mi sono trovato i primi anni a Roma. C’era anche una certa diffidenza per come credevo che mi vedessero. Poi tutto questo me lo sono perso.
Le capita di pensare in siciliano quindi.
Ancora sì.
Quando era ragazzo, si vergognava o faceva un punto di orgoglio a presentarsi fuori come siciliano?
Non provavo orgoglio né mi sentivo minorato.
Ma a uno straniero, presentandosi, direbbe che è siciliano o italiano?
Io dico che sono un italiano, perché prima ancora di essere siciliano appartengo a una nazione che si chiama Italia alla quale tengo molto; dopodiché dico che sono nato in Sicilia, senza precisare «però sono nato in Sicilia». Sono un italiano nato in Sicilia.