L’ipotesi che l’impero romano cominci a crollare con l’inizio della fede cristiana disputa il campo alla teoria secondo cui furono le invasioni barbariche a segnarne la fine. Nel suo libro La fine di Roma (Einaudi), Corrado Augias sembra dare credito a tale supposizione, tanto da sottotitolare “Trionfo del cristianesimo, morte dell’impero” come a indicare una successione diacronica di eventi storici. “Il Regno di Dio era un’aspettativa spirituale che comportava anche concrete conseguenze politiche” scrive l’autore romano, proponendo una riflessione che in qualche modo secolarizza la dottrina cristiana, e muove da un’idea avanzata già nel Settecento da Edward Gibbon in Declino e caduta dell’impero romano, testo tenuto costantemente presente da Augias, molto attratto dalla “colorita prosa” dello storico inglese. Secondo il quale Paolo di Tarso per primo contribuì non meno di Vandali e Goti a minare le fondamenta di Roma.
Ma se il processo di conversione cristiana dei popoli immigrati sarebbe stato storiograficamente condiviso (scrive infatti Alessandro Barbero in Barbari che “l’integrazione in una prospettiva religiosa continuava a rappresentare il motivo dominante dei discorsi ufficiali” sia delle autorità politiche che ecclesiastiche), la ricerca è invece ancora prudente nel riconoscere ai cristiani la stessa importanza dei barbari nella guerra contro Roma. “Sicuramente, come scrive Gibbon, il cristianesimo fu una delle cause che portarono alla rovina dell’impero romano, troppo forti le diversità tra le due culture – dice Augias. – Se sia poi stata questa la ragione principale o solo una delle concause è materia discutibile ed infatti molto discussa senza che si sia mai arrivati ad una conclusione unanime. Credo di poter dire che l’impossibilità di arrivare a questa conclusione è semplice: non c’è mai una sola ragione per fenomeni di tale complessità.”
Chiedendosi sin dall’inizio se dare più rilevanza alla morte dell’impero romano o alla nascita del cristianesimo, Augias tuttavia sceglie di porre sullo stesso orizzonte i due fenomeni e, dando quindi alla spiritualità lo stesso peso attribuito alle orde e alle armi, procede lungo una linea mediana che tiene comunque conto di come la fede abbia infine vinto sia l’impero avuto per nemico che i barbari conquistatori e altrettanto pagani. Una vittoria conseguita con la parola e l’apostolato, ma per Augias che echeggia Tertulliano anche con il sangue dei martiri che ha fatto da seme al cristianesimo. Sangue versato soprattutto a Roma, teatro delle principali persecuzioni e destinataria dei “Rescritti” di Traiano e Adriano, che regolano per primi la tolleranza del nuovo culto quanto anche al modello imperante di “associazione di fede” che punisce i cristiani in quanto tali (com’è oggi per i mafiosi), al di là di reati specifici da perseguire d’ufficio. Ma restringendo su Roma il suo sguardo, Augias si è anche chiesto se si proponesse un baedeker o un libro di storia?
“La domanda – dice l’autore – coglie un punto centrale della struttura del libro che consiste nella narrazione delle figure e degli eventi protagonisti del passaggio epocale dalla civiltà classica a quella cristiana. Proprio per questo nel libro si indicano anche luoghi o monumenti che rendano evidente questo passaggio. Parlo naturalmente di quelli sopravvissuti in tutto o in parte alle distruzioni che anche in questo caso come in ogni evento del genere si verificarono.”
“I luoghi sono lì e raccontano questa storia” scrive Augias, indicando Roma come “il cuore della narrazione”, senonché altri due grandi cuori battono per il cristianesimo e sono Gerusalemme e Costantinopoli. “È vero – risponde Augias – ma Roma è stata ed è la sede del papato. La presenza di questo sovrano spirituale e temporale è uno dei fattori che hanno reso questa città, come dice la sua definizione abituale, ‘eterna’.”
Entro le mura di Roma imperiale l’autore si muove però in maniera trasversale, tradendo la costante preoccupazione di uscire fuori tema, tanto da annunciare spesso il ritorno all’oggetto principale. In realtà la spinta verso la digressione è molto forte, quasi irresistibile, come nel caso della lunga tirata sul sesso. “Ho dedicato – dice – alla sessualità e all’amore comunque inteso due capitoli del libro perché quello è uno dei campi in cui le differenze tra vecchia e nuova cultura furono più evidenti e radicali. Il cristianesimo introduce la nozione di amore celeste che la classicità non conosceva. I vecchi dèi erano venerati, temuti, implorati, ma non amati. In compenso la letteratura latina di cui riporto ampi stralci raggiunse proprio nel campo amoroso una capacità di descrizione e di canto tra le più alte mai toccate.”
La preferenza è decisamente per gli Antonini e in particolare per Marco Aurelio, l’autore dei Ricordi, di cui Augias tratta alla fine ponendo “l’imperatore a cavallo” in un capitolo conclusivo, distante dagli altri della stessa dinastia. “A Marco Aurelio – spiega – ho dedicato un capitolo a parte che esce dalla struttura essenzialmente cronologica della narrazione. La ragione è che la figura di questo imperatore è assolutamente notevole per la capacità di un uomo gravato da immense responsabilità politiche e militari di mantenere intatta non solo la sua curiosità di intellettuale ma anche una mitezza d’animo rara. Il suo unico grave errore fu di designare alla successione suo figlio Commodo, un ragazzo che l’ambiente di corte aveva profondamente traviato.”
Muovendosi tra i due mondi, quello pagano e quello cristiano, e parlando di “passaggio di civiltà”, accurata espressione per sottendere non uno scontro ma un’eredità, Augias ha nella sostanza raccontato la sua città multiforme e stratificata, dando conto degli archi trionfali in superficie come delle catacombe e dei mitrei sotterranei sorti in omaggio di ultronee religioni. Standoci in mezzo e non pronunciandosi mai per una professione di fede cristiana, la sensazione che infine produce è di avere in Roma la sua unica divinità.